1. Partiamo dal presente. Con tre immagini che, nelle ultime settimane, hanno lasciato un segno nell’iconografia politica della giustizia (senza toga). Sono immagini che rappresentano il potere statale nella sua dimensione più incisiva, immediata, materiale: quella che si esercita direttamente sul corpo, come forza fisica.
La prima immagine non attiene alla sfera penale, ma è comunque un’immagine di coercizione e privazione della libertà.
Vediamo, di spalle, una fila di uomini diretti verso la rampa di un aereo militare. Con i ceppi alle caviglie e una robusta catena che cinge la vita e costringe le braccia al busto, camminano sotto il controllo di uomini in divisa.
Non è una foto rubata da un reporter di Human Rights Watch. È una foto “ufficiale”, pubblicata dalla Casa Bianca. Nella didascalia leggiamo: i voli della deportazione sono iniziati. Potrebbe sembrare il titolo di un giornale liberal (…una denuncia); invece no: è una rivendicazione. È il potere politico a usare quelle parole per amplificare l’effetto delle immagini. La Casa Bianca vuole farci vedere quei soggetti coartati (sub-iecti) e vuole farci sapere che sta attuando una politica che risponde al nome di deportazione. La scelta della parola è significativa quanto la pubblicazione della foto.
La seconda immagine è tratta da un video, che inizia in un aeroporto e si conclude in un carcere. Attraverso il montaggio narrativo, scorrono militari con i caschi antiproiettile, mezzi blindati in transito, agenti di custodia incappucciati. Ma i protagonisti del video sono decine e decine di uomini deportati dal governo degli Stati Uniti per essere incarcerati in un centro di confinamento del terrorismo, in Salvador.
Da quando scendono dagli aerei fino a quando entrano nelle gabbie, questi uomini sono costretti a camminare con la schiena piegata a novanta gradi e la faccia rivolta verso il basso. La regia sceglie i dettagli con cura. Evidenzia il disagio fisico della postura innaturale, forzata dalla coazione di braccia che spingono e di mani che bloccano; ci mostra un detenuto che, con i polsi ammanettati, orina sorvegliato da due agenti; indugia sulla rasatura completa delle teste, con inquadrature individuali e collettive di prigionieri in ginocchio. Poi, una camera montata su un drone riprende la scena di grande impatto visivo diffusa dai media attraverso questo fermo immagine:
Ai lati si notano le sbarre delle camerate in cui, di lì a poco, saranno rinchiusi quei corpi assoggettati.
Una delle versioni di questo video (in rete se ne trovano diverse) è stata diffusa tramite Truth Social dal presidente degli Stati Uniti D’America. Anche in questo caso le immagini sono accompagnate da un messaggio politico. I deportati reclusi sono qualificati come «mostri». Parola di Trump.
Terza immagine. La più recente. È il fotogramma di un video indimenticabile:
La donna con il cappellino è Kristi Noem, segretaria per la sicurezza interna degli Stati Uniti. È in visita al CECOT: il mega-carcere salvadoregno di cui abbiamo appena visto uno scorcio panoramico. Nei filmati che documentano questa visita, vediamo Noem accolta e accompagnata all’interno di un padiglione. Insieme ai suoi anfitrioni, attraversa l’ampio corridoio che scorre tra le gabbie, attorniata da guardie del corpo, fotografi e cameramen. A un certo punto si ferma di fronte alle sbarre di una cella. Gli agenti di custodia ordinano ad alcuni detenuti di schierarsi in piedi e di togliersi la maglietta. Gli altri – decine di altri – sono seduti sui quattro piani delle cuccette in metallo (vivono così, giorno e notte: lì mangiano, lì si lavano, lì defecano). Ora nessuno deve dare le spalle al gruppo dei liberi. Il set è pronto. La donna si posiziona, guarda nella camera di un telefonino e inizia a parlare. Il suo discorso punta sull’effetto pedagogico dello spettacolo penale. Dietro di lei, la scena è affollata di corpi seminudi di uomini in gabbia.
È un’immagine che rappresenta il carcere come luogo di afflizione e umiliazione. Come pena che annichilisce la dignità insieme alla libertà. Come pena degradante e brutalmente corporale.
Questa visione del carcere è consegnata all’opinione pubblica da chi detiene ed esercita il potere di governo. Da chi evidentemente vuole legittimare questo tipo di pena e mira a legittimarsi attraverso l’uso di essa; la sua esibizione.
2. C’è un fil rouge che lega le immagini di dominio qui riprodotte in una escalation di cui è difficile prevedere lo sviluppo e l’impatto.
Uno dei maggiori intellettuali del nostro tempo, Luigi Ferrajoli, ha parlato recentemente di «ostentazione della disumanità al vertice delle istituzioni». Si tratta di un giudizio etico-politico, pertinente al discorso valutativo e condivisibile da chi prende i diritti sul serio. Ma è possibile riformularlo, a livello descrittivo, in un giudizio “tecnico-politico”, sostituendo la categoria morale della ‘disumanità’ con il concetto sociologico di ‘disumanizzazione’ o "deumanizzazione".
Deumanizzare significa costruire un confine simbolico nell’immaginario sociale tra persone e non persone. Deumanizza chi erigere gerarchie di valore e dignità tra gruppi di individui. Deumanizza chi alimenta un’antropologia della disuguaglianza che svilisce chi è classificato come inferiore. La "deumanizzazione" è una tecnica politica, ideologicamente funzionale a discriminare, segregare, uccidere (…o anche lasciar morire)
Quando pensiamo alle pratiche e ai discorsi di "deumanizzazione" ci vengono subito in mente quelli che hanno legittimato, nel corso dei secoli, la schiavitù, il colonialismo, i genocidi, la pulizia etnica, le guerre di conquista e di sterminio. Ma la degradazione delle persone a «mostri», ad «animali feroci», a «tumori maligni del corpo sociale» ha pervaso anche, nella nostra esperienza storica, l’ambito di esercizio del potere di punire. Le metafore disumanizzanti appena evocate hanno sempre caratterizzato le dottrine di giustificazione delle pene esemplari e delle pene capitali, nelle cui modalità di esecuzione la fantasia umana ha soddisfatto ogni sorta di pulsione sadica.
Ora, il fatto che queste metafore siano riattivate nel discorso politico che proviene dal vertice delle istituzioni della maggiore potenza globale ci riguarda. E non può che preoccuparci. Innanzitutto, perché l’Europa continua ad essere politicamente e culturalmente subalterna agli Stati Uniti. In secondo luogo, perché la concezione della pena che attualmente prevale nel diritto e nella cultura giuridica dei nostri paesi – una concezione umanistica antitetica a quella promossa da Trump – manca di un solido radicamento nel consenso sociale (benché sia da tempo sedimentata nei principi dello Stato costituzionale). Esposta alla forza dei venti della storia (come ogni conquista di civiltà), rischia di non resistere alle tempeste politiche del nostro tempo.
Abbiamo molte ragioni per difendere la concezione umanistica della pena. L’umanesimo penale – ricorro a questa espressione sintetica e pregnante – è un cespite fondamentale del patrimonio giuridico europeo. È (ed è stato) un fattore di incivilimento: di mutamento istituzionale e di riduzione della violenza sociale.
3. Prima di suffragare questa tesi, procederò a una chiarificazione concettuale. Di cosa parliamo quando parliamo di umanesimo penale?
Con questa denominazione intendo riferirmi a una tradizione culturale – plurale nei suoi presupposti filosofici e trasversale a diverse visioni politiche – caratterizzata da un insieme di connotati distintivi.
Il primo di essi è il riconoscimento della centralità della persona nell’ordinamento politico della società. Se non postuliamo il primato assiologico dell’essere umano, perdiamo i criteri di valore in base ai quali stabilire i limiti e i vincoli del potere di punire. Le ideologie che antropomorfizzano lo Stato, il Popolo, la Nazione, dotando queste entità collettive di fini autonomi e superiori alle esistenze individuali, consentono (e storicamente hanno consentito) di giustificare qualsiasi trattamento a danno dei soggetti differenziati dal gruppo degli integrati.
Il secondo connotato rilevante è la considerazione del sistema penale come dimensione cruciale dell’ordine civile. Presupposto della concezione umanistica della pena è infatti la consapevolezza che il sistema penale è il terreno sul quale più immediato è il contatto tra il sovrano e il soggetto, più trasparente è il conflitto tra potestà e immunità, più esasperata è la tensione tra forza e diritto. Da questa prospettiva, il potere penale rivela la sua natura tragica. È uno scudo potente, ma può ferire quanto le armi da cui difende. Contiene la violenza nel duplice senso del verbo: la limita e la incorpora.
Il terzo elemento dell’umanesimo penale è correlato alla cognizione di un dato di fatto: la criminalità è un fenomeno sociale. Ne consegue il dovere di tener conto e farsi carico della corresponsabilità della società nello sviluppo della devianza. Postuliamo giustamente che la responsabilità penale è personale, ma non possiamo ignorare che le forme della criminalità sono sempre legate alla struttura della società. Per questo, le politiche sociali hanno più importanza e sono più efficaci delle politiche penali.
Il quarto connotato culturale della concezione umanistica della pena è precisamente il rifiuto morale (razionale o emotivo che sia) della degradazione del reo a soggetto disumanizzato: della sua rappresentazione quale bestia da abbattere, virus da debellare, nemico da eliminare… Si tratta, in altre parole, del riconoscimento della dignità di persona anche all’individuo a cui si applica la pena.
Tutti questi elementi si riflettono nella dimensione pragmatica e operativa dell’umanesimo penale, che, di fronte al diritto positivo, assume sempre una posizione critica e progettuale, rinnovando continuamente le sue istanze riformatrici e incidendo, nel polimorfismo delle sue espressioni storiche, sull’evoluzione della disciplina giuridica del potere di punire. In forza di questa dimensione politica, possiamo riconoscere nell’umanesimo penale un potente fattore di mutamento istituzionale (oltre che un formante del costituzionalismo moderno e contemporaneo).
4. Come esempio paradigmatico possiamo considerare la questione della tortura.
Nella nostra esperienza giuridica la tortura è stata, per secoli e secoli, uno strumento a disposizione del potere giudiziario. Nelle sedi dei tribunali penali esistevano luoghi attrezzati per praticarla. Si ricorreva ad essa non per punire, bensì per provare. La tortura era un mezzo di indagine, una tecnica probatoria. Serviva, nel processo, a ottenere confessioni e/o chiamate in correità. Funzionale ad accertare la responsabilità penale, in vista della condanna e della punizione dei colpevoli, era perfettamente legale: autorizzata e regolata dal diritto come atto di esercizio del potere.
Ai nostri giorni, invece, l’immunità contro la tortura è un diritto inviolabile e torturare è un delitto imprescrittibile: un’azione proibita da trattati internazionali e sanzionata nelle legislazioni statali. Chi tortura, oggi, non applica il diritto penale (come facevano i giudici in Antico regime): lo viola, trasgredendo un divieto posto a tutela del valore supremo della persona umana. Il termine tortura continua ad appartenere al lessico giuridico: ma ieri designava un dispositivo procedurale mentre oggi è il nome di un crimine abominevole.
Non potremmo comprendere un mutamento così radicale nella fisionomia del potere punitivo se non tenessimo conto della diffusione e dell’impatto della concezione umanistica della giustizia penale. Diffusione ed impatto che trovano riscontro, in Europa, anche nell’evoluzione del diritto penitenziario. Certo, oggi come ieri, il carcere è un’istituzione criminogena, strutturalmente inidonea a realizzare gli scopi che dovrebbero giustificarne l’esistenza. Tuttavia, il regime giuridico del carcere attuale è molto distante da quello affermatosi con la «nascita della prigione».
Nelle sue origini ottocentesche, il sistema penitenziario prevedeva modalità detentive e disciplinari che oggi qualificheremmo come trattamenti disumani e degradanti. La pena carceraria non consisteva solo nella privazione della libertà personale, ma anche nel lavoro coatto, nell’isolamento cellulare, nell’obbligo del silenzio, nell’assoggettamento completo al dominio di un’autorità che, in assenza di norme legali, imponeva dispoticamente punizioni corporali. Il carcere è stato a lungo un ripostiglio di pene arbitrarie. Oggi, nonostante tutto, il linguaggio normativo dei diritti fondamentali, attraverso l’operato dei giudici di sorveglianza e la professionalità degli avvocati più vigili, arriva ad incidere sulla realtà della pena detentiva: la talpa dell’umanesimo penale ha scavato anche sotto le celle delle prigioni.
Si potrebbero menzionare altri esempi rilevanti, come la nascita di nuove istituzioni di garanzie, a tutela dei diritti delle persone private delle libertà, o come la delegittimazione giurisprudenziale dell’ergastolo in quanto pena perpetua, che – se non riducibile in base a criteri, tempi e modi prestabiliti – mortifica l’umanità del detenuto. Il tema che voglio approfondire, però, concerne il superamento del «diritto patibolare».
5. Nel 2007, in occasione della Giornata mondiale contro la pena di morte, l’allora segretario generale del Consiglio d’Europa – il laburista britannico Terry Davis – ha dichiarato solennemente: «Il rifiuto della pena di morte è un fondamento dell’identità europea». All’orgoglio di questa rivendicazione di civiltà occorre associare la consapevolezza che ogni identità culturale è mutevole: giacché è «storia e nient’altro che storia».
In effetti, nell’Europa del diritto, l’abolizione della pena di morte è una conquista recente: novecentesca (più esattamente, della seconda metà del Novecento). La Convenzione europea per i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali, stipulata nel 1950, non includeva il divieto di pena di morte. A quell’epoca la maggior parte degli Stati firmatati si attribuiva ancora il diritto di uccidere per punire. Solo nel 1983, con un protocollo aggiuntivo (il sesto), il Consiglio d’Europa ha sancito l’abolizione della pena di morte. Fu l’esito di un lungo processo storico, scandito da tante battaglie. Un esito che segna la vittoria, nello spazio giuridico europeo, del movimento abolizionista.
Come movimento d’opinione, l’abolizionismo si sviluppa tra XIX e XX secolo, ma le sue radici culturali affondano proprio nella concezione umanistica della pena che fiorisce nell’Europa dell’Illuminismo, nella seconda metà del XVIII secolo: quando la pena di morte era, ovunque, un elemento centrale dell’arsenale punitivo statale. Associata a un’ampia gamma di infrazioni giuridiche, dalla lesa maestà divina alle trasgressioni sessuali, era comunemente riconosciuta come prerogativa del potere, come diritto sovrano: ius necandi.
Sappiamo tutti che l’avvio della lotta abolizionista è legato a un nome, Cesare Beccaria, e a un’opera, Dei delitti e delle pene (1764). Beccaria era molto giovane quando scrisse quel pamphlet così fortunato («miracoloso libretto», lo ha chiamato Piero Calamandrei). Contestare la pena di morte significava allora prendere posizione contro la cultura dominante: contro la teologia, la filosofia, la scienza giuridica, ma anche contro il senso comune e l’apparente evidenza delle cose.
Ebbene, come arriva un venticinquenne, nell’Europa del XVIII secolo, ad affermare l’inaudito: a sostenere la tesi secondo cui la pena di morte non è legittima, non è necessaria, non è utile ed è persino nociva?
Non intendo riproporre un esame degli argomenti con cui Beccaria avvalora questa tesi. Voglio porre una domanda di fondo (la cui risposta mi pare interessante per il presente). Quali sono i presupposti culturali del rifiuto della pena di morte, allorché quel rifiuto trova, per la prima volta nella storia europea, una compiuta espressione politica? Quali sono, cioè, gli ingredienti originari dell’abolizionismo?
6. Cominciamo dal considerare che, nell’Europa dei Lumi, la contestazione della pena di morte presuppone il rifiuto dell’autorità della tradizione. Uso la parola "autorità" in tutta l’ampiezza del suo significato. L’autorità è l’istanza disciplinare a cui prestiamo obbedienza: la fonte delle norme coattive che accettiamo come legittime. Riconoscere l’autorità della tradizione – conformarsi alla tradizione – significa osservare le regole che le generazioni anteriori hanno osservato; significa rispettare le istituzioni radicate nella storia. "Tradizionalismo" è il neologismo ottocentesco coniato per denominare questo atteggiamento culturale.
Qual è il postulato del tradizionalismo? È l’idea che il presente debba essere modellato sul passato; che la continuità dell’esperienza debba orientare la nostra esistenza. Ciò che sempre è stato deve continuare a essere, perché è giusto che sia: questa è la massima del tradizionalismo. Chi riverisce l’autorità della tradizione riconosce nella durata di un’istituzione la certificazione della sua bontà e considera la sua diffusione come la prova della sua necessità.
Si tratta di una visione della realtà che storicamente ha esercitato una forza notevole nell’universo giuridico. Si pensi alla consuetudo, che dall’antichità ai tempi moderni, è stata una delle principali fonti del diritto. Attraverso la consuetudine, una regolarità sociale acquisisce l’efficacia cogente della regola giuridica. Dalla fattuale ripetizione di una serie di comportamenti uniformi e costanti, percepiti come obbligatori, sono (as)tratte norme applicabili in giudizio. Si può facilmente notare la prossimità tra questo modello di normatività e l’elevazione della tradizione al rango di istanza disciplinare.
Una conferma del rilievo della logica del tradizionalismo nel discorso giuridico è ricavabile dall’argomento del consensus gentium, storicamente impiegato per naturalizzare e legittimare il diritto positivo. A partire dalla giurisprudenza romana, matrice della cultura giuridica occidentale, le istituzioni e le regole accreditate dal «consenso delle genti», cioè quelle in uso presso tutti i popoli, sono state contemplate e consacrate come il prodotto della ragione naturale. Ovviamente, da un punto di vista esterno a questa retorica giusnaturalistica, la valorizzazione del consensus gentium altro non è che la valorizzazione di tradizioni condivise: l’ossequio verso un ordine tradizionale il cui valore autoritativo è potenziato dalla diffusione generale.
Ora, al tempo in cui Beccaria avvia la battaglia abolizionista, la morte come pena inflitta ai delinquenti è un’istituzione consolidata dalla storia in tutti gli ordinamenti. Per metterla in discussione occorre innanzitutto scardinare i postulati normativi del tradizionalismo. Beccaria lo sa e lo fa, usando il grimaldello della sua scintillante dialettica. A chi legittima la pena di morte sull’«esempio di quasi tutt’i secoli e di quasi tutte le nazioni», replica efficacemente: «Gli umani sacrificj furon comuni a quasi tutte le nazioni, e chi oserà scusargli?»
7. Rifiutato «il dispotismo» dei costumi inveterati, che – nelle parole di Stuart Mill – è «in perenne contrasto con quella disposizione che ci fa tendere a qualcosa di meglio dell’usuale», l’abolizionismo delle origini entra in rotta di collisione anche con l’autorità della religione.
Oltre a consistere in un insieme di credenze, la religione positiva integra un insieme di norme. Non prescrive soltanto un modello di pensiero (ortodossia), ma anche un modello di comportamento (ortoprassi). Dalle religioni del libro – come il cristianesimo – derivano discorsi sull’ordine politico che statuiscono principi e regole, comandano azioni e omissioni, promettono premi e minacciano sanzioni. Direttamente o indirettamente, i testi venerati come sacri sacralizzano poteri e atti del potere.
Dal punto di vista – egemonico in Antico regime – di chi assume la Bibbia come paradigma normativo, l’estremo castigo trova piena legittimazione. Perché l’Antico Testamento racconta una storia antica (anzi, arcaica): la storia di un popolo la cui organizzazione sociale era regolata da un diritto penale (arcaico) che ovviamente includeva la pena capitale. Se scorriamo i precetti elencati nel Levitico, troviamo un ampio numero di condotte illecite sanzionate con la morte: «chiunque maltratta suo padre o sua madre dovrà essere messo a morte»; «se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno esser messi a morte»; «l’uomo che si abbrutisce con una bestia dovrà essere messo a morte»; «se uomo o una donna […] eserciteranno la negromanzia o la divinazione dovranno essere messi a morte; saranno lapidati e il loro sangue ricadrà su di essi». Nella narrazione biblica è Dio stesso a dettare queste regole a Mosè.
Se dal Levitico ci spostiamo ai Numeri o al Deuteronomio troviamo tante altre proibizioni la cui violazione è punita con la morte. E se passiamo dall’Antico al Nuovo Testamento ci imbattiamo nella lettera di Paolo di Tarso ai Romani, in cui l’apostolo delle genti intima l’obbedienza politica avvertendo che il sovrano non porta la spada invano: «Ogni persona si sottometta ai poteri dei superiori. Non vi è potere se non da Dio, e quanti esistono sono disposti da Dio. Così chi si oppone al potere contesta l’ordine divino, e chi lo contesta riceverà una condanna. I governanti, infatti, non sono temibili per chi opera il bene, ma il male. Desideri non provare timore del potere? Fa’ il bene e ne riceverai elogi: infatti il potere è al servizio di Dio per il tuo bene. Se invece fai il male, abbi timore, perché non porta la spada invano: è al servizio di Dio per rendere giustizia alla sua ira verso chi fa il male».
Questo monito paolino è ripetutamente citato dagli apologeti medievali e moderni del potere di punire uccidendo; rappresenta, nell’Europa cristiana, il principale fondamento di legittimazione biblica del diritto patibolare. È significativo, del resto, che la Chiesa cattolica abbia dovuto attendere il pontificato innovatore di papa Francesco per ripudiare la sua tradizionale dottrina di giustificazione della pena capitale. Al tempo di Beccaria, sulla scena del supplizio, oltre al boia, che operava sul corpo del «paziente» (così era denominato il condannato), c’era il prete a prendersi cura della sua anima.
Per contestare lo ius necandi, dunque, occorreva emanciparsi dall’autorità della religione. E la cultura dei Lumi segna una tappa decisiva in questo processo di emancipazione e laicizzazione, iniziato con il Rinascimento e la Rivoluzione scientifica. Nella sua celebre e icastica definizione, Immanuel Kant coglie appieno il rilievo epocale di questo passaggio culturale: «l’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità».
8. Il terzo presupposto dell’abolizionismo è il rifiuto della concezione organicistica della società, per la quale il tutto è superiore alle parti. Nell’antichissima metafora del corpo politico, la società sta agli individui, come il corpo fisico sta alle sue membra. Così come il corpo è più importante delle singole membra che lo compongono, la società è più importante degli individui. La rilevanza delle parti del corpo dipende dalla funzione che svolgono nella sua fisiologia complessiva. Parimenti, gli individui sono subordinati alle funzioni dell’organismo sociale.
Nelle implicazioni nomotetiche di questa analogia, la pena di morte risulta pienamente legittimata. Le variazioni sul tema sono innumerevoli, ma la formulazione canonica dell’argomento organicistico si trova nella Summa theologiae di Tommaso d’Aquino: «la parte è per natura subordinata al tutto. Ecco perché, se la salute del corpo umano lo esige, è lodevole e salutare ricorrere all’amputazione di un membro putrido e cancrenoso. Ebbene, il singolo individuo rispetto alla comunità intera è come la parte rispetto al tutto. Quindi, se un uomo costituisce un pericolo per la società, ucciderlo è lodevole e salutare per la conservazione del bene comune».
Nel ripristinare la pena di morte nel codice penale italiano, il ministro fascista Alfredo Rocco richiamò (anche) questo brano di Tommaso a supporto della dottrina del primato dello Stato come «organismo, ad un tempo, economico e sociale, politico e giuridico, etico e religioso», di fronte al quale l’individuo «non è che un elemento infinitesimale e transeunte», tenuto alla subordinazione in quanto strumento «di fini sociali che oltrepassano di molto la sua vita».
Di tutta evidenza, il rifiuto della pena di morte presuppone la negazione di questa concezione organicistica della politica: ovvero, la valorizzazione della persona come fine in sé; come soggetto di diritti fondamentali; di diritti di immunità nei confronti della società organizzata nelle forme giuridiche dello Stato.
9. Il quarto presupposto culturale dell’abolizionismo è il rifiuto della concezione retributivistica per cui il male penale deve equivalere al male criminale. Si tratta di una visione ancestrale della giustizia, la cui forza è radicata nelle nostre intuizioni morali da tempo immemorabile. Corrisponde al sentimento vendicativo la cui soddisfazione esige la sofferenza del colpevole: malum passionis propter malum actionis.
In questa prospettiva, la punizione del delinquente è la concretizzazione di un principio morale fondato sulla giustizia naturale, che prescrive l’omogeneità del castigo al delitto (talio esto). Un assassino deve pagare con il sangue il sangue che ha versato. È un topos del giusnaturalismo antico, medievale e moderno. Locke lo ribadisce richiamandosi al libro della Genesi: «chiunque sparga il sangue dell’uomo abbia il proprio sangue sparso dall’uomo». Alla fine del Settecento, in polemica con l’abolizionismo di Beccaria, Kant torna ad avallare la fondatezza morale di questo precetto penale: chi «ha ucciso deve morire» poiché «non vi è nessun surrogato […] che possa soddisfare la giustizia». La sola pena giusta, a «paragone» della morte causata dall’azione criminale, è la «morte giuridicamente inflitta al criminale».
Per sostenere l’illegittimità della pena capitale occorre infirmare la dogmatica del retributivismo, rifiutare il principio della corrispondenza isomorfica tra azione offensiva e reazione punitiva, pensare il diritto fuori dalla mitologia della giustizia naturale. Nel contrattualismo e nell’utilitarismo di Beccaria troviamo i presupposti di questa importante cesura che apre l’orizzonte di un diritto penale umano: affidato alla piena responsabilità degli uomini; alla loro autonomia nel decidere se, perché, quando e come punire.
10. Non è sufficiente, però, superare l’idea della pena naturale e le pretese di giustizia del retributivismo per abbattere i contrafforti ideologici del patibolo. Non basta condividere l’idea secondo cui il «fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile», bensì «d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali». Ci vuole un ulteriore passaggio culturale: occorre ripudiare il dogma criminalistico che associa l’effetto preventivo della pena alla sua durezza, efferatezza, crudeltà; altrimenti, la pena di morte continuerà ad apparire una necessità.
Se puniamo per prevenire i delitti e se riteniamo che la prevenzione passi per la severità afflittiva, allora cadiamo nella logica della pena esemplare. Era l’ideologia penale dell’Antico regime, in cui non solo la morte era prevista come pena per un numero altissimo numero di azioni proibite, ma l’esecuzione di quella pena si svolgeva sulla pubblica piazza in forme spettacolari e cruente: la ruota, il rogo, lo squartamento... In questa logica, è giusto uccidere per punire, perché è necessario a incutere quel timore che produce obbedienza. E se il fine della deterrenza giustifica lo spettacolo dei supplizi, allora vale a giustificare anche l’umiliazione dei colpevoli, la degradazione della loro dignità, l’annichilimento dei loro diritti.
Così, chi subisce la pena può essere trattato come un animale, come un essere inferiore, come un mostro. E i mostri sono creati per essere mostrati; preferibilmente in gabbia, ridotti all’inoffensività.
Di fronte a quella gabbia, possiamo identificarci – in quanto cittadini onesti – con la donna con il cappellino, compiaciuta di registrare il suo video propagandistico; o possiamo riconoscerci, come esseri umani, in quei volti e in quei corpi, al di là le sbarre. Possiamo sentirci rassicurati dal potere che esibisce la sua forza o restare sgomenti di fronte alla sua violenza. Possiamo godere del sadismo punitivo o possiamo reagire alla deriva punitivista, provando ad attivare la forza dell’empatia e a difendere i valori dell’umanesimo nella giustizia penale.
Quel che non possiamo fare è far finta di niente. Perché sta accadendo tutto sotto i nostri occhi. Giorno dopo giorno; alla luce del giorno. E le generazioni future, questa volta, sapranno che sapevamo.
Il contributo riproduce, in versione ampliata e in traduzione italiana, il testo di una conferenza svolta all’Università di Granada per la Cátedra Francisco Suárez (9 aprile 2025)