Che dovessimo contare su un sussulto collettivo di vergogna per poter coltivare un po’ di speranza in un futuro migliore, questo non lo avevamo mai immaginato.
Eppure, in giorni come questi – in cui i potenti della terra ci dicono ad alta voce, tra lo squillo delle trombe, che il diritto internazionale non è altro che la formalizzazione del fatto compiuto, la mera espressione della forza bruta – la conclusione dell’intenso libro che Marco Bouchard dedica al sentimento della vergogna, ci lascia un barlume di speranza[1].
«Storie e pensieri di un’emozione inattuale», recita il sottotitolo. E già questa asciutta frase mette a fuoco le domande che si intrecciano col racconto.
La vergogna - sentimento che ci distingue dagli animali perché solo noi arrossiamo in viso - «ci insegue attraverso lo sguardo altrui» e ci accompagna dall’infanzia fino alla morte. Il suo insorgere, nel bambino, differenzia «il Sé come soggetto che agisce dal Sé come possibile oggetto di auto-osservazione».
Bouchard, esperto di giustizia riparativa e presidente di Rete Dafne Italia (associazione dedicata al supporto delle vittime di reato), ha riflettuto per tanti anni, non solo ma anche per motivi professionali, su questa emozione, sulle sue manifestazioni e sui suoi riflessi. Ed oggi, a compimento di antiche riflessioni, a lungo maturate e distillate nel tempo, ci consegna pagine in cui questo sentimento è sezionato e analizzato con passione storica e letteraria. Ecco: il libro è un distillato prezioso, da cui promana, come un antico profumo, costantemente riconoscibile ma mai invadente, l’etica profonda dei padri valdesi. Un’etica forte e dolce insieme; rassicurante come un porto a cui fare riferimento nella tempesta.
Bouchard si sofferma a lungo – nelle pagine del libro in cui più affiora la sua esperienza professionale - sulla differenza tra senso di colpa e vergogna, spesso invece confusi (nel sentire comune e in letteratura) perché i due sentimenti «spesso si inseguono, si accavallano, si trasformano l’una nell’altro, nella stessa persona e per la stessa causa originaria». Proviamo il senso di colpa – riflette Bouchard - quando avvertiamo di aver sbagliato. Ma ciò ci «permette di isolare il fattore che lo provoca e ci introduce alla possibile riparazione». La vergogna è più pericolosa e invadente, più difficile da isolare, è un «filo interiore ipersensibile e doloroso» che ci connette agli sguardi che posano su di noi gli altri, di cui avvertiamo il giudizio («con la vergogna scopro un aspetto del mio essere» come lo vedono gli altri, aveva già detto Sartre).
Per questo la vergogna può avere una funzione edificante, perché, ricordandoci che noi esistiamo al cospetto degli altri, può «esserci indispensabile nella costruzione dell’etica pubblica». Ma lo sguardo altrui può essere persecutorio, come nella icona letteraria della lettera scarlatta A cucita sul petto di Hester Prynne, per bandirla dalla sua comunità. E’ l’esposizione della vergogna, che oggi trova un succedaneo nelle manette ai polsi dell’arrestato, immortalate con un clic di un secondo ma poi affidate alla gogna senza tempo della rete.
La vergogna può anche essere terribilmente cattiva. Perché – come l’Autore ci ricorda in un altro passaggio cruciale del libro - in certi contesti, l’angoscia di poter essere messi ai margini del gruppo di appartenenza può condurre a commettere crimini efferati: «ho sparato con gli altri perché nessuno vuole essere considerato un codardo, uno smidollato». Così si giustificherà un riservista tedesco che nel 1942 partecipò ad una strage di donne e bambini ebrei in Polonia. Ed è questo timore – annota giustamente Bouchard richiamando Tisseron – questa paura di essere messo ai margini e al bando dal gruppo, dal branco, dai commilitoni, dallo spirito del tempo che in certi casi sa farsi boato assordante, a fare da «porta di ingresso principale verso l’accettazione del totalitarismo».
Ma c’è anche la “vergogna del giusto” di Primo Levi: «quella che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altri».
Con questi parametri sullo sfondo, Bouchard si addentra nell’analisi di come il sentimento sia stato sentito e descritto nella storia dell’uomo, in un colto e avvincente racconto che va dalla letteratura greca classica al cinema dei giorni nostri. Dai dialoghi di Platone e dai poemi omerici alla lettura teologica dell’Etica di Dietrich Bonhoeffer (la vergogna è il ricordo che l’uomo ha della propria origine). Dalla vergogna come alimento della vita giudiziaria alla vergogna usata (non in Italia) come leva nel combattere l’evasione fiscale tramite la pubblicazione degli elenchi degli evasori. Dalla vergogna di Adamo ed Eva, che mascherano la loro nudità solo dopo aver mangiato il frutto ed aver scoperto la differenza dei loro corpi (ancora una volta, lo sguardo dell’altro) alla vergogna della ragazza che, a dodici anni, vede il padre aggredire la madre brandendo una roncola.
Ma dove alberga oggi la vergogna? Esiste ancora o – come suggerisce il sottotitolo da cui siamo partiti – è ormai un «sentimento inattuale»? Se è vero che oggi – nelle nostre vite frastagliate in cui trascorriamo ore davanti a dispositivi elettronici - la comunicazione attraverso i social «neutralizza lo sguardo altrui», sottraendo a chi comunica con noi la comunicazione non verbale, la mimica facciale, il rossore, come cambierà, nel lungo futuro, questo sentimento? Arrossiremo ancora? Lo sguardo degli altri sarà ancora utilizzato come «veicolo di trasmissione di valori e princìpi» o sarà invece denunciato come «indebita intromissione nelle insindacabili scelte personali?». E, comunque, quali sono i connotati dell’odierna vergogna? L’idolo del successo e dell’apparire fa sì che oggi ci si vergogni non per aver violato le regole dell’onore ma per l’incapacità «di conformarsi agli standard di successo della comunità».
Bouchard però ci lascia con uno squarcio di luce sul futuro. Se di fronte ad un naufragio, istituzioni e associazioni si prodigano, al di là del dovuto, non solo per salvare vite ma – come è accaduto - per dare dignità alle vittime ricostruendo con pazienza la loro identità, ciò non vuol forse dire che quello sguardo d’altri che penetra gli individui è capace anche di raggiungere e scuotere i corpi sociali che sono il tessuto del nostro vivere civile?
Ma quale può essere, per una collettività, lo sguardo che penetra, si incunea nelle fibre dell’organizzazione sociale in modo così intimo e potente da suscitare la «reazione anche emotiva di un popolo?». Da dove può giungere questo sguardo?
In una fase storica in cui il leader della maggiore potenza occidentale manifesta un istinto predatorio del capitalismo che pareva consegnato alle caricature di fine Ottocento sul capitalista-sanguisuga (“quelle terre mi servono e dunque me le prenderò”); in giorni in cui vengono fatte circolare come trofei foto di immigrati in gabbie e catene; e in cui – come scrive Mauro Magatti – la bussola dell’Occidente pare attratta da una «amoralità sacra, capace di andare oltre la distinzione tra giusto e sbagliato, sacro e profano»; in questa epoca che ci è data da vivere, lo sguardo che penetra e inquieta può arrivarci soltanto dal richiamo dei padri e delle nostre tradizioni.
Contro l’eclissi di umanità rimane quella «voce segreta che è in fondo alla nostra coscienza», la legge «che scritta in cuor si porta» di cui ci parlava Calamandrei ricordando Cino da Pistoia. Una legge che – non dimentichiamolo – soltanto dopo secoli di tragedie della storia europea ha ispirato il miracoloso incontro di umanesimi di diversa radice (religiosa, filosofica, culturale, politica) che hanno un comune codice genetico: il rifiuto che, in qualunque circostanza, «l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa». Se il richiamo a questi antichi mores saprà evocare un sentimento collettivo di vergogna, allora ha ragione Marco Bouchard: la vergogna ci salverà.
[1] Marco Bouchard, La vergogna del giusto e dell’ingiusto. Storie e pensieri di un’emozione inattuale, Bollati Boringhieri, 2025.