1. Il libro di Giovanni D’Angelo, Tra memoria e futuro. Un elogio della Costituzione (Catania, Maimone ed. 2024), raccoglie saggi sul diritto e sulla giustizia scritti in anni diversi, mettendo a frutto la ricca e variegata esperienza culturale e professionale dell’autore. Un magistrato e uno studioso che ha attraversato stagioni difficili e tormentate della vita del Paese e della magistratura, esercitando costantemente un’acuta capacità di analisi sulla società e sulle istituzioni.
Il volume offre una testimonianza intellettuale riflessiva e sofisticata, particolarmente utile in un momento in cui, troppo spesso, delle questioni di giustizia si discute solo indulgendo ai luoghi comuni e alle polemiche tanto aspre quanto superficiali.
L’ordine dato agli scritti che compongono l’opera è già rivelatore dell’intento dell’autore: osservare il suo terreno di indagine - la giustizia - da tutte le angolazioni, rifiutando ogni visione unilaterale e non problematica.
Il libro è perciò diviso in tre parti intitolate «La giustizia vista di fronte», «La giustizia vista di lato» e «La giustizia vista dall’alto».
2. Nella prima parte, dedicata alla visione frontale e diretta delle vicende e delle molteplici trasformazioni del giudiziario, sono riuniti i saggi che analizzano temi e momenti cruciali della storia del diritto e del processo penale.
Dall’istituzione del tribunale della libertà alla svolta storica dell’approvazione del codice Vassalli. Dal nodo, sempre problematico, del ruolo del pubblico ministero e dei suoi interni criteri di organizzazione all’analisi della posizione della Corte di cassazione, vertice della giurisdizione in una struttura diarchica dell’apice dell’ordine giudiziario nel quale essa coesiste con il Consiglio Superiore, vertice del governo autonomo della magistratura.
E, sempre in questa prima parte del libro, un ampio spazio di riflessione è dedicato - come è proprio dei magistrati più aperti e sensibili - all’avvocatura, in pagine nelle quali si mostra con eloquenza la funzione essenziale e preziosa degli avvocati e il loro rapporto con i magistrati e si ricordano, con genuina commozione, alcune figure di illustri difensori.
E’ con questo omaggio che Giovanni D’Angelo riafferma una elementare verità: che i giudici e i pubblici ministeri, soprattutto quando muovono i primi passi nella professione, vanno a scuola dagli avvocati e traggono, dai migliori di loro, insegnamenti e modi di comportamento destinati a guidarli ed orientarli nel corso di tutta la loro vita professionale.
3. Se nella prima parte dell’opera a campeggiare è il magistrato, il tecnico del diritto, il giurista, nella seconda parte «La giustizia vista di lato» entra in campo il lettore colto ed appassionato, l’intellettuale che muove alla “scoperta” della concezione della giustizia nella letteratura e nella filosofia.
Anche in quest’ambito la memoria gioca un ruolo fondamentale grazie alla rievocazione dei “maestri” dell’autore al liceo classico che lo hanno educato all’impegno ed al rigore intellettuale e gli hanno instillato “l’amore per la Costituzione, il senso creativo del dubbio, l’apertura al dialogo e alla discussione”: doti indispensabili per tutti ma ancor più fondamentali per un futuro magistrato.
Gli scritti racchiusi in questa seconda parte sono certamente i più godibili per un pubblico di lettori colti ma non specialisti del diritto che, con l’ausilio dell’autore, potranno accostarsi a grandi temi letterari e filosofici.
«La concezione della giustizia nel pensiero di Leonardo Sciascia», «La requisitoria nel processo a Socrate», «Diritto e giustizia nell’opera di Pirandello»: sono titoli accattivanti, che invitano ad esplorare la complessa relazione tra letteratura e diritto, nella quale emerge, grazie alle parole di narratori e filosofi, tutta la potenza drammatica, la dimensione esistenziale, il travaglio morale ed intellettuale che connotano l’esperienza giuridica e in special modo quella “legge in azione” che è la giurisdizione.
Anche perché l’autore - che in questi saggi è fino in fondo uno “scrittore” - non arretra di fronte a compiti di vertiginosa difficoltà.
Egli accetta, infatti, nientemeno che di pronunziare una requisitoria immaginaria nel processo a Socrate, sostenendo l’accusa nei confronti del filosofo, come egli dice, «per gusto di … libertà» intellettuale, dando prova, in questo esercizio, di una grande maestria inquisitoria.
Chi voglia sapere se l’accusa sia persuasiva e se sia effettivamente in grado di superare e vincere il plurisecolare pregiudizio favorevole al filosofo greco, proprio di tutta la nostra cultura, non ha alternative alla lettura del libro, giacché l’impalcatura accusatoria è complessa e in nessun modo riassumibile nello spazio angusto di una recensione.
Ma l’aver accettato un compito così arduo, così impopolare, così controcorrente dice molto sulla personalità di Giovanni D’Angelo e sulla sua autonomia e forza di pensiero.
Se poi è consentita al recensore una brevissima notazione personale egli dirà che si sente particolarmente vicino ed affine a questo atteggiamento di “sprezzo del pericolo”, avendo in passato accettato, in un dialogo con Livio Pepino, sostenitore di Antigone, di difendere l’incompreso e calunniato Creonte dalla condanna del coro greco che pure, all’inizio della tragedia, lo aveva osannato come il salvatore della città.
Come a dire che gli avvocati coraggiosi – siano essi di accusa o di difesa – non sono spaventati nell’affrontare percorsi in salita ma accettano di buon grado di interpretare ruoli difficili per far vivere quella dialettica che nel processo consente al giudice di avvicinarsi quanto più possibile alla verità.
4. Nel libro di un magistrato profondamente legato alla Sicilia non poteva mancare una appassionata riflessione sull’idea di giustizia nelle opere di Leonardo Sciascia.
Nella tetralogia poliziesca di Sciascia - Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Il contesto, Todo modo - o in Porte aperte, il lettore - giurista coglie con finezza il motivo ricorrente della contrapposizione tra indagine ed inquisizione e del confronto tra le figure dell’inquirente e dell’inquisitore.
L’inquirente è colui che indaga, «il garante leale della verità, espressione di valori genuinamente positivi» mentre l’inquisitore «è colui che interroga o meglio che, fingendo di interrogare, impone la sua verità, in altri termini è il subdolo mistificatore della verità, espressione di valori pericolosamente e nettamente negativi».
Dall’esplorazione di questo contrasto origina «una critica serrata al carattere inquisitorio del sistema giudiziario nel suo complesso e della rigida concezione della giurisdizione di cui è figura emblematica il presidente della Corte Suprema che ne Il Contesto nega decisamente l’esistenza dell’errore giudiziario e colpevolizza Voltaire, “reo” di avere azzardato dubbi sulla certezza della giustizia».
Che poi nell’opera complessiva dello scrittore di Racalmuto non sia ravvisabile «una visione uniforme» e «una ideologia unitaria» della giustizia non è per D’Angelo un limite o una ragione di critica.
L’eterogenea concezione della giustizia presente nei libri di Sciascia gli appare infatti coerente «con la formazione individualistica, illuministica e libertaria perennemente rivendicata» dallo scrittore che «più volte evocò in Voltaire un suo padre spirituale e sottolineò come il piacere della polemica si confondesse con la libertà».
Nel che sta una chiave per comprendere alcuni «momenti di alto contrasto tra Sciascia e settori dell’intellettualità nazionale, magistrati compresi».
5. Dopo la suggestiva incursione in campo letterario e filosofico - che da sola varrebbe la lettura – cambia ancora, nel libro, l’angolo visuale da cui si osserva la giustizia.
Questa volta lo sguardo muove dall’alto, da due punti vista differenti ma complementari.
Il primo è quello del governo autonomo della magistratura di cui l’autore è stato autorevole protagonista come membro togato del Consiglio Superiore nella consiliatura 1998-2002, caratterizzata, nella sua parte finale, dalla presentazione della riforma Castelli e dall’inizio del lungo contenzioso sul progetto di riscrittura dell’ordinamento giudiziario coltivato dal governo Berlusconi.
Il secondo è il ruolo di dirigente di un importante ufficio giudiziario – la Procura generale presso la Corte di appello di Messina – cui D’Angelo è giunto dopo una lunga militanza come Sostituto Procuratore generale in Corte di cassazione.
Il drone sapientemente manovrato dall’autore inquadra fatti e persone, vicende istituzionali e storie individuali, sempre con una intensa partecipazione intellettuale ed emotiva, in una visione che accomuna le tante straordinarie persone incontrate dal magistrato nella sua esperienza professionale – Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, Rosario Livatino – gli uditori, per così dire “tenuti a battesimo” e poi divenuti membri del CSM e autorevoli dirigenti, come Francesco Mannino, Giuseppe Meliadò e Rosario Spina e i giovani che si affacciano, con un misto di ansia e di grandi aspettative, al difficile mestiere del magistrato.
6. La ricognizione dei diversi angoli visuali adottati nel guardare alla giustizia non esaurisce però i contenuti e le ragioni di interesse del libro.
Almeno altrettanto rilevanti sono, infatti, l’introduzione generale dell’opera e gli introibo alle tre sezioni del volume.
In particolare, nell’ampio saggio iniziale che reca la data del 14 luglio 2024, viene rappresentato, con toni vividi e rapide pennellate, lo stato delle cose presenti: i focolai di guerra accesi nel mondo, il processo di globale erosione della democrazia, l’affermarsi dei populismi, tra cui quello di “marca italiana”, il declino dei pilastri istituzionali su cui si si è fondato lo Stato democratico di diritto: il parlamento, la stampa, i partiti. Fino ai progetti di premierato elettivo e di autonomia differenziata.
A questi inquietanti processi di regresso - del pensiero critico, della democrazia liberale, della capacità di convivere in pace e secondo regole di giustizia - è ancora possibile reagire, ci dice l’autore, con la «resistenza dello spirito» invocata da Edgar Morin le cui parole sull’accecamento del pensiero aprono il libro.
Una resistenza nel segno della Costituzione, di cui in ogni pagina del libro si tesse direttamente o indirettamente l’elogio, e della razionalità giuridica cui i magistrati hanno il dovere di restare fedeli anche nelle peggiori tempeste del presente e del prossimo futuro.