Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

La riforma della magistratura e la rigidità affievolita della Costituzione *

di Giampietro Ferri
professore ordinario di diritto costituzionale e pubblico nell'Università di Verona

Il disegno di legge costituzionale del Governo n. 1917 sulla riforma della magistratura è all’esame del Senato dopo essere stato approvato dalla Camera dei deputati, in prima deliberazione, il 16 gennaio 2025.

Ci si potrebbe chiedere quale sia la ragione di un incontro di studio su di esso quando mancano ancora parecchi mesi alla conclusione del procedimento legislativo.

Si potrebbe rispondere che rientra a pieno titolo nella tradizione della comunità dei giuristi (intesa, in senso largo, come comprensiva dei professori universitari di diritto, dei magistrati e degli avvocati) discutere su modifiche legislative non soltanto dopo che sono entrate in vigore, per valutare il loro impatto sull’ordinamento e offrire possibili orientamenti interpretativi agli operatori del diritto, ma anche quando sono state semplicemente proposte, atteso che dal dibattito pubblico possono scaturire elementi utili alle future scelte del legislatore.

Ma, con riferimento alle riforme costituzionali, al di là dell’importanza in sé del discorso che coinvolge direttamente la Costituzione, c’è un elemento peculiare che giustifica che già nella fase iniziale del procedimento disciplinato dall’art. 138 Cost. – che richiede una doppia deliberazione da parte di ciascun ramo del Parlamento – vi sia un confronto nella comunità scientifica e nella società: l’impossibilità di proporre emendamenti durante la seconda “lettura” del testo.

Mancando ancora – come si è già detto – la prima deliberazione del Senato, ci troviamo in una fase cruciale, perché rappresenta l’ultima occasione per offrire un contributo che possa essere tenuto in considerazione ai fini di un eventuale correzione del testo. 

Tuttavia, i buoni propositi devono fare i conti con la realtà; e la realtà è che il testo della riforma è blindato. 

La parola «blindatura», che non è sconosciuta al lessico parlamentare, risalendo per quanto riguarda specificamente la legislazione costituzionale agli anni Novanta del secolo scorso, sta a significare che, per effetto di un accordo tra i partiti della maggioranza, il testo non potrà più essere modificato.

Si dà per scontato che il Senato approverà senza modifiche il testo votato dalla Camera. Si dà per scontato che il testo sarà approvato nella seconda deliberazione a maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi (mancando i voti di quasi tutte le forze di opposizione). Si dà per scontato che il procedimento di revisione si concluderà con il referendum.

Occorre richiamare l’attenzione su tre punti: a) l’esercizio dell’iniziativa legislativa da parte del Governo, che in materia costituzionale non è una novità (basti pensare al disegno di legge governativo sul c.d. premierato), ma non può comunque passare sotto osservazione, segnalando uno spostamento dell’asse della produzione legislativa verso l’Esecutivo; b) la gestione del procedimento legislativo da parte della maggioranza governativa senza aperture, con un sostanziale svuotamento del ruolo del Parlamento; c) la prospettazione di un referendum come esito finale necessario, laddove la Costituzione lo contempla come ipotesi secondaria, indicando come strada maestra l’approvazione della seconda deliberazione da parte delle Camere con la maggioranza dei due terzi, a significare che la revisione costituzionale è condivisa anche dall’opposizione (o, comunque, da una parte cospicua di essa). Tutto ciò conferma che, per una serie di fattori (primo fra tutti quello della dissoluzione dei partiti storici che hanno sorretto la Costituzione formale nella prima fase dell’esperienza repubblicana), si è verificato un affievolimento della rigidità costituzionale. La Costituzione, un tempo considerata non modificabile senza il consenso del più forte partito di opposizione, è entrata nella disponibilità della maggioranza: una situazione che dovrebbe far riflettere, tanto più considerando che la maggioranza di governo, a differenza di quanto accadeva nella c.d. prima Repubblica, è espressione di una minoranza popolare e che la fase eventuale del referendum, che potrebbe/dovrebbe consentire un recupero della rigidità con il coinvolgimento diretto del corpo elettorale, si svolge in un contesto non paragonabile a quello del passato per la crisi dei corpi intermedi e per l’influenza che può essere esercitata dai moderni mezzi di comunicazione in una società sempre più atomizzata e sfiduciata, che dalla sfiducia trae spesso motivo per rinunciare al voto.

Richiamarsi al programma ufficiale della coalizione vincitrice delle ultime elezioni politiche, dove si parla di «Riforma della giustizia e dell’ordinamento giudiziario: separazione delle carriere e riforma del CSM», può dar prova della fedeltà alla promessa elettorale, ma non di una gestione del procedimento di revisione della Costituzione in piena conformità allo spirito dell’art. 138 Cost., che esige la ricerca di un confronto con la minoranza parlamentare.

(Vero è che le divisioni nel campo avversario fanno sì che per la maggioranza governativa risulti difficile dialogare sul terreno delle riforme costituzionali con l’opposizione – nella storia di una parte della quale c’è la condivisione di un percorso con il centrodestra per arrivare a una riforma della magistratura tendente a distanziare il pubblico ministero dal giudice e a riequilibrare il sistema dei poteri dello Stato –, ma questa difficoltà, anziché provocare un atteggiamento di chiusura, dovrebbe semmai spingere ad un’“apertura” al Paese).

Parlare di riforma contro la Costituzione è certamente sbagliato se con ciò s’intenda che il procedimento di revisione si sta svolgendo in violazione formale della lettera dell’art. 138 Cost., così come se s’intenda che la riforma, per i suoi contenuti, è lesiva dei princìpi supremi dell’ordinamento costituzionale.

Riforma incostituzionale è espressione che non può però essere considerata infondata se con essa, ammessa la forzatura lessicale, si voglia evidenziare che la gestione del procedimento di revisione costituzionale da parte della maggioranza non riflette lo spirito dell’art. 138 Cost.; e in definitiva il fatto che la fonte costituzionale, considerata dalla maggioranza come strumento nella sua piena disponibilità in ragione del mandato popolare ricevuto, viene in sostanza “degradata”, quasi che non debba esserci distinzione con la legge ordinaria.

 

Il disegno di legge costituzionale n. 1917, presentato il 13 giugno 2024, prevede la modifica di 7 articoli della Costituzione, tutti contenuti – con l’eccezione dell’articolo 87 – nel titolo IV della parte II della Costituzione («La Magistratura»).

Il titolo del disegno di legge («Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare») dà conto soltanto in parte della portata della riforma, i cui punti essenziali sono:

1) la separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e requirenti (una separazione netta, dopo che la legge n. 71 del 2022 aveva differenziato ulteriormente i percorsi professionali, ammettendo la possibilità di un solo passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa);

2) la sostituzione del Consiglio Superiore della Magistratura (organo che attualmente “governa” tutta la magistratura ordinaria) con due Consigli superiori (uno per la magistratura giudicante e l’altro per quella requirente);

3) il sorteggio dei componenti togati e dei componenti laici di tutti e due i Consigli, ferma restando la presenza come componenti di diritto del Primo Presidente della Corte di cassazione (nel Consiglio superiore della magistratura giudicante) e del Procuratore generale della stessa Corte (nel Consiglio superiore della magistratura requirente), oltre che del Presidente della Repubblica, cui spetterebbe la presidenza di tutti e due gli organi;

4) l’istituzione dell’«Alta Corte disciplinare», quale nuovo giudice disciplinare in sostituzione della Sezione disciplinare del C.S.M.

Non si tratta dunque soltanto di separazione delle carriere, anche se la riforma viene spesso rappresentata, ed è probabilmente nota al grande pubblico, come riforma sulla separazione delle carriere.

Quanto alla definizione di «riforma della giustizia», essa può forse essere accettata nella misura in cui alla separazione delle carriere si ricolleghi una diversa dinamica del processo, che diventerebbe finalmente un processo «giusto» svolgendosi davanti a un giudice terzo, come vuole l’art. 111 Cost., e non davanti a un giudice che terzo non è, essendo unito al pubblico ministero da una comune carriera e da un comune organo di governo autonomo. Anche se va detto che il testo della riforma mantiene inalterato l’art. 104, comma 1, Cost., secondo cui la «magistratura» (giudicante e requirente) «costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere», e che nella Relazione introduttiva al disegno di legge – con l’evidente finalità di tranquillizzare coloro i quali temono che la separazione delle carriere sia l’anticamera della sottoposizione del pubblico ministero al controllo dell’Esecutivo – si afferma che in «continuità con la storia costituzionale italiana e con l’interpretazione della Corte costituzionale, questo disegno di legge costituzionale conferma la compiuta assimilazione tra i magistrati del pubblico ministero e i giudici rispetto alle garanzie offerte dai principi di autonomia e indipendenza».

Ma parlare di «riforma della giustizia» può essere fuorviante se con tale espressione si voglia significare che la riforma in sé può incidere in concreto sul funzionamento della giustizia (cioè sui tempi, che sono notoriamente lenti, e sulla qualità, che dipende da diversi fattori, non ultimo quello della professionalità dei magistrati).

Essendo una riforma con una pluralità di contenuti, era normale attendersi giudizi differenziati. Così, mentre alcuni hanno dichiarato di essere a favore della separazione delle carriere ma contrari al sorteggio dei componenti dei Consigli superiori, altri, all’opposto, hanno dichiarato di essere a favore del sorteggio, ma contro la separazione delle carriere. Non mancano poi posizioni ulteriormente articolate, che esprimono un giudizio positivo sulla separazione delle carriere, ma contrario allo sdoppiamento del C.S.M. Si registrano altresì posizioni favorevoli alla riforma in tutte le sue parti, così come posizioni contrarie a ogni singolo aspetto della riforma. 

Va evidenziato che, nell’ambito dell’orientamento contrario alla riforma, la posizione che pare emergere è quella di chi, al di là della valutazione nello specifico delle soluzioni tecniche adottate, guarda alla riforma come espressione di un disegno che tende a ridurre il peso della magistratura nel sistema istituzionale e ad alterare il delicato meccanismo dei pesi e contrappesi che caratterizzano lo Stato costituzionale di diritto o, se si preferisce, la democrazia liberale.

 

Qualora la riforma fosse sottoposta al giudizio popolare, potrebbe riproporsi il problema dell’omogeneità del quesito e della libertà dell’elettore, la cui volontà sarebbe coartata dal voto unico. Problema che tuttavia, dopo la vicenda referendaria del 2016, quando il corpo elettorale fu chiamato a pronunciarsi sulla revisione della parte II della Costituzione, può dirsi sostanzialmente risolto nel senso che non è ammissibile il frazionamento del quesito referendario, il quale, in presenza di un’unica deliberazione legislativa del Parlamento, deve essere unico.

La prospettiva referendaria pone infine un interrogativo: quale sarà il quesito a cui dovrà rispondere l’elettore? 

Sul quesito “esplicito” non possono esserci dubbi: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare” approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale…»? Dubbi, semmai, potrebbero sorgere a proposito della capacità di affrontarlo con piena cognizione di causa da parte del corpo referendario. Il quesito, infatti, per sua complessità non può ritenersi alla portata della generalità dei cittadini, dai quali ci si potrà perciò aspettare non un giudizio tecnico-giuridico, bensì un giudizio politico, sempre che la difficoltà di comprensione della materia non abbia un effetto respingente, favorendo l’astensionismo (che, non essendo previsto il quorum, è ininfluente ai fini della validità del referendum, ma non può essere sottovalutato, potendo accadere che la legge di revisione costituzionale entri in vigore con uno scarso numero di voti popolari favorevoli). 

Quale sarà, invece, il quesito “implicito” lo diranno gli eventi, ma, richiamando le parole del ministro della Giustizia, potrebbe essere così formulato: siete contenti di come è amministrata la giustizia in Italia? (se non siete contenti, votate sì; in caso contrario, votate no).

Varchi ancora più consistenti a forme di «neoflessibilità plebiscitaria» (richiamo l’espressione di Maurizio Pedrazza Gorlero, che risale a quasi venticinque anni fa) si aprirebbero così nella rigidità procedimentale.

[*]

Il testo riproduce, con qualche modifica e adattamento, l’Introduzione al Convegno telematico su La riforma costituzionale della magistratura del 4 aprile 2025, organizzato dal Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università degli Studi di Verona. Al Convegno hanno partecipato Ennio Amodio, Giampietro Ferri, Mario Patrono, Nello Rossi, Giovanni Verde e Michele Vietti.

16/04/2025
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