L’8 e 9 giugno siamo chiamati a votare. Non è il momento migliore, un fine settimana di giugno e forse non è un caso. Però votare è importante, perché ci è chiesto di decidere di diritti fondamentali di tante persone. Si vota infatti sulla disciplina che sanziona i licenziamenti illegittimi (sotto vari aspetti), su quelle che regolano il contratto a termine e gli appalti e sull’accesso alla cittadinanza.
Per quanto riguarda i referendum sul lavoro si tratta di quesiti che, con i limiti necessariamente imposti da uno strumento di democrazia diretta che può essere solo demolitorio di norme esistenti, incidono su ambiti regolativi che sono il cuore del diritto del lavoro e la cui riforma ha condotto alla marginalizzazione dei diritti delle persone che lavorano e così contribuito alla precarietà e all’insicurezza delle loro vite. Per questo l’esito positivo del voto referendario, oltre ad avere un effetto pratico rilevante, avrebbe un significato politico e simbolico anche più ampio: segnerebbe il rifiuto, anche da parte degli elettori, di un modello di regolazione dei rapporti di lavoro, sotto molti e significativi profili, già segnato dal giudizio di illegittimità della Corte Costituzionale. Un modello in cui il lavoro è un fattore della produzione come gli altri, è una merce, i cui costi devono essere minimizzati insieme ai rischi derivanti dalla variabilità della domanda, una merce che può essere usata quando serve e dismessa quando non serve più, con una spesa predeterminata, per lo più a buon mercato.
Di questo modello regolativo i decreti attuativi della riforma nota come Jobs act costituiscono l’esempio perfetto. Nella loro formulazione originaria quei decreti introducevano infatti, in caso di licenziamento illegittimo, salvo ipotesi molto limitate e dal legislatore storico assunte espressamente come eccezionali, una sanzione solo monetaria, determinata in misura fissa, crescente unicamente in relazione all’anzianità di servizio del lavoratore e quindi in concreto assai contenuta, dato che le norme si applicavano ai soli lavoratori assunti dopo il marzo 2015 (D.L.gs. 23/2015). Essi consentivano inoltre l’impiego del contratto a termine senza necessità di specifica indicazione delle ragioni transitorie che avrebbero consentito l’assunzione precaria (D.L.gs. 81/2015). In tal modo l’illegittimità del licenziamento, e quindi la violazione della legge e per il lavoratore la perdita ingiusta del lavoro, diventavano un costo predeterminato per l’impresa, una posta di bilancio neppure onerosa, mentre il contratto a termine poteva essere in concreto usato anche per fare fronte a esigenze produttive stabili, così precarizzando le vite delle persone, precludendo progetti e scelte di vita e prima la stessa possibilità di far valere senza timore i propri diritti.
Il principio alla base del sistema delle sanzioni previste per i licenziamenti illegittimi dal D.L.gs. 23/2015 è già stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale[1], mentre la Corte di Giustizia[2] ha affermato che l’impiego del contratto a termine per far fronte a esigenze non transitorie contrasta con il diritto dell’Unione. E’ tempo allora che sia il nostro voto a eliminare ciò che resta di queste previsioni, così assicurando anche ai lavoratori assunti dopo il marzo 2015 la più ampia garanzia della reintegrazione, prevista (anche grazie a numerosi interventi della Corte Costituzionale e dei giudici di legittimità) dalla L. 92/2012 (cosiddetta legge Fornero) e impedendo che in concreto il contratto a termine sia usato quando la legge imporrebbe l’assunzione a tempo indeterminato. Ma è tempo più generalmente che gli elettori ripudino, con il loro voto, un modello regolativo dei rapporti di lavoro che ha ridotto le tutele a vantaggio di una crescita dell’occupazione solo apparente, fatta di lavoro povero e precario, inidoneo a consentire a lavoratori e lavoratrici (soprattutto i più giovani) vite libere e dignitose.
Ancora, potremo con il nostro voto assicurare una disciplina sanzionatoria più adeguata dei licenziamenti illegittimi intimati a dipendenti delle piccole imprese (la maggior parte delle imprese italiane). Quella attuale è pensata infatti per un sistema produttivo che non esiste più, in cui il numero degli occupati era indicativo della forza anche economica dell’impresa. Oggi al contrario l’evoluzione tecnologica e la frammentazione dei processi produttivi rende la dimensione occupazionale un dato per niente espressivo della grandezza effettiva dell’impresa (ci sono imprese con fatturati milionari e pochissimi dipendenti, per tante ragioni). Già la Corte Costituzionale[3] aveva invitato il legislatore a dare una nuova disciplina a queste ipotesi, ma il suo monito è rimasto inascoltato; l’esito positivo del referendum attuerebbe quel comando, ponendo rimedio all’inerzia dei decisori politici.
Infine il quarto dei quesiti sul lavoro è diretto a estendere la responsabilità dei committenti in materia di sicurezza sul lavoro negli appalti. Non c’è forse tratto più caratteristico della trasformazione del nostro sistema produttivo della diffusione degli appalti, che ha portato con sé la segmentazione, a volte la completa disgregazione dei processi produttivi. Si tratta di un fenomeno che risponde solo in parte a finalità propriamente produttive (quali per esempio l’attribuzione a terzi di frazioni del processo produttivo marginali o accessorie oppure connotate da una specifica complessità in termini di mezzi o di know how dei lavoratori impiegati). In molti altri casi, invece, l’attribuzione in appalto delle varie fasi del processo produttivo è un fenomeno parassitario, privo cioè di ogni ragione diversa dalla determinazione di ridurre il costo del lavoro.
Era proprio per evitare questi fenomeni, che oggi la sociologia chiama di delocalizzazione di prossimità, che il legislatore della L. 1369/1960, aveva previsto l’obbligo di parità di trattamento tra dipendenti del committente e dipendenti dell’appaltatore. Una previsione che dal 2003 non esiste più nell’impiego privato e la cui abrogazione ha contribuito alla diffusione nel tessuto produttivo del nostro paese degli appalti come strumento di contenimento dei costi e dei rischi derivanti dalla titolarità dei rapporti di lavoro.
Tuttavia, a distanza di oltre vent’anni da quella scelta normativa, a chiunque voglia vedere risulta evidente quanto essa sia costata alle persone che lavorano. La realtà ci restituisce infatti l’evidenza della concentrazione del lavoro povero nei settori dove sono più frequenti, praticamente strutturali, le catene di appalti, come pure il numero significativo di infortuni e di infortuni gravi fra i lavoratori dipendenti o collaboratori di imprese appaltatrici o subappaltatrici. E non è un caso perché, anche per aziende strutturate, non è facile garantire la sicurezza in cantieri in cui operano decine di imprese diverse, con diversi livelli di specializzazione della manodopera e differente adeguatezza degli strumenti della produzione rispetto alle attività commesse.
In un simile scenario qualsiasi soluzione normativa che accresca la tutela dei lavoratori in appalto e per contro renda meno convenienti gli appalti parassitari deve essere incentivata e questo oggi possiamo fare votando sì al referendum.
L’ultimo dei quesiti riguarda l’accesso alla cittadinanza. Non si tratta di un quesito estraneo ai primi quattro, al contrario crediamo che l’averli proposti insieme abbia un senso profondo.
In primo luogo perché tutti attengono alle garanzie di diritti fondamentali. Con il quesito sulla cittadinanza infatti ci è chiesto di rendere, con il nostro voto, più semplice (o meno difficile) a tante persone che vivono nelle nostre comunità partecipare alle scelte di queste comunità, scelte che le riguardano direttamente, spesso drammaticamente, perché i loro diritti anche i più elementari, le loro stesse vite sono oggi al centro dell’interesse della politica e del dibattito pubblico e tuttavia proprio loro, le persone straniere, non hanno alcun potere di decidere, con il voto, di se stesse[4].
Ma vi è un’altra ragione che rende, non solo opportuna, ma essenziale la presentazione congiunta dei quesiti sul lavoro e sulla cittadinanza: in questi anni tanta parte del dibattito pubblico si è costruito sulla contrapposizione, su noi e loro, noi contro loro e generalmente “loro” erano le persone straniere, mentre “noi” erano spesso le lavoratrici e i lavoratori italiani, specie i più poveri. Oggi con il nostro voto ai referendum possiamo dire che i diritti si tutelano per tutti e tutte o non sono diritti per nessuno e che a rendere fragili e precarie le vite dei lavoratori non sono i lavoratori più poveri, ma sistemi regolativi che consentono, a volte incoraggiano, lo sfruttamento degli uni e degli altri.
[1] Corte Cost. 194/2018; Corte Cost. 128/2024.
[2] CGUE, 23.4.2009, Angelidaki; CGUE, 26.1.2012, Kükük.
[3] Corte Cost., 22.7.2022, n. 183.
[4] Sul punto cfr. C. Giordana, Le elezioni tedesche del 2025 e la centralità della non rappresentanza, in questa Rivista, https://www.questionegiustizia.it/articolo/le-elezioni-tedesche-del-2025-e-la-centralita-della-non-rappresentanza
Le schede che saranno pubblicate nel corso della settimana sono a cura del gruppo di lavoro di Magistratura democratica sui referendum che si terranno l'8 e il 9 giugno prossimi. Ringraziamo l’avv. Alberto Guariso per avere lavorato insieme a noi: a lui si deve la scheda relativa al referendum sull’accesso alla cittadinanza, di prossima pubblicazione