Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di febbraio 2025

Le più interessanti sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo nel mese di febbraio 2025

Le pronunce di febbraio della Corte Edu qui selezionate riguardano gli obblighi positivi dello Stato di fronte a un episodio di molestie e di violenza di genere, la legittimazione ad agire e lo status di vittima di società in nome collettivo, la disciplina italiana in materia di accessi, ispezioni e verifiche di natura fiscale presso locali commerciali.

In P.P. c. Italia, la Corte di Strasburgo condanna le autorità nazionali per non aver agito con diligenza e tempestività di fronte a un episodio di persecuzioni e molestie in un contesto di violenza domestica. A seguito della denuncia della ricorrente, le indagini e il successivo processo penale sono stati portati avanti con insostenibile lentezza e ciò aveva determinato il proscioglimento dell’imputato per prescrizione del reato. Le autorità nazionali hanno quindi omesso di affrontare e contrastare il fenomeno inserendolo nel contesto specifico della violenza domestica e di genere. 

In Miosotis Transport di Mauri Giuseppe & C. s.n.c. c. Italia, la Corte chiarisce il rapporto tra società e soci ai fini della legittimazione ad agire nel procedimento sovranazionale, nello specifico in relazione all’ipotesi di ricorso presentato da società in nome collettivo, a fronte di procedimento penale a carico dei soci (per reati non rientranti nell’ambito di applicazione del d.lgs. n. 231/2001) e ordinanze di ingiunzione a carico dei medesimi con responsabilità solidale della società.

In Italgomme pneumatici s.r.l. e altri c. Italia, la Corte condanna l’Italia per la violazione di natura sistemica dell’art. 8 della Convenzione, attesoché la disciplina italiana in materia di accessi, ispezioni e verifiche di natura fiscale presso locali commerciali, sedi legali o locali utilizzati per attività professionali lascia un margine di discrezionalità eccessivamente ampio all’Amministrazione finanziaria e non prevede un rimedio giurisdizionale efficace prima che la verifica sia terminata.

 

Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 13 febbraio 2025, ric. n. 64066/19, P.P. c. Italia

Oggetto: articolo 3 della Convenzione (divieto di tortura) - obblighi procedurali - mancato adempimento da parte dello Stato del dovere di indagare efficacemente sulla violenza domestica - impunità dell’ex partner della ricorrente a causa del ritardo ingiustificato del procedimento penale a suo carico, che si è concluso per effetto della prescrizione - mancata considerazione da parte delle autorità del problema specifico della violenza domestica - passività dei tribunali di fronte alla gravità dei reati contestati alla ricorrente - conseguenze derivanti dalle peculiarità del sistema nazionale per quanto riguarda la prescrizione e i ritardi del procedimento, incompatibili con i requisiti della Convenzione

La ricorrente presentava denuncia penale affermando di esser stata vittima di violenze fisiche, atti persecutori e molestie da parte del suo ex compagno, testimoniando tre occasioni di aggressione fisica. Nella sua denuncia, la ricorrente affermava anche che l’ex partner monitorava i suoi movimenti, la seguiva in auto, perquisiva il suo telefono, controllava la sua biancheria intima, la sminuiva, insultava, allontanava dalla sua famiglia e minacciava, descrivendo tale comportamento come una ricerca di controllo e coercizione. La donna forniva prove dettagliate di queste persecuzioni anche attraverso testimoni che potevano confermare le sue dichiarazioni.  

Da quando la notizia del reato è stata iscritta con conseguente apertura dell’indagine, la ricorrente non veniva ascoltata dal pubblico ministero e non venivano acquisite copie dei messaggi e delle telefonate dell’ex partner della ricorrente. Tre anni e mezzo dopo il pubblico ministero chiedeva il rinvio a giudizio dell’ex partner per atti persecutori (art. 612 bis del Codice penale) commessi nei confronti della ricorrente. Poco dopo, la ricorrente esercitava l’azione civile. 

Tre anni dopo il Tribunale assolveva l’ex partner della ricorrente sula base delle seguenti motivazioni: all’epoca dei fatti la ricorrente e il partner vivevano una relazione amorosa “tossica e tormentata”; mancava l’elemento materiale e/o psicologico del reato di atti persecutori, in quanto la ricorrente non aveva interrotto la relazione con l’ex partner, anzi si era resa disponibile ai suoi inviti per accettare regali e offerte di lavoro, nonostante il comportamento oggettivamente molesto nei suoi confronti. Ha quindi ritenuto che l’ex partner non fosse consapevole di causare alla parte lesa un disagio psicologico e morale e che quindi non fosse stato accertato l’elemento soggettivo del reato di atti persecutori. La ricorrente e il pubblico ministero hanno presentato appello contro questa sentenza. L’anno successivo, la Corte d'appello di Firenze assolveva l’ex partner dai fatti che aveva commesso prima dell'entrata in vigore della legge introduttiva del reato di atti persecutori, del 25 febbraio 2009, e dichiarava prescritti i fatti commessi dopo tale data. La legge introduttiva del reato di atti persecutori era entrata in vigore il 25 febbraio 2009. L’indagine aveva rivelato che i tre episodi di aggressione fisica, non contestati, erano stati commessi prima di tale data. Inoltre, tali reati erano in ogni caso prescritti: per stessa ammissione della Corte d'appello la fase investigativa e il processo davanti al tribunale erano durati così a lungo che il termine di prescrizione del reato era decorso. La Corte condannava l’ex-partner a risarcire la ricorrente. 

La ricorrente presentava ricorso in Cassazione. La sentenza, pronunciata nove anni e mezzo dopo la presentazione della denuncia, confermava la prescrizione del reato. Tuttavia, la Cassazione annullava la sentenza per quanto riguarda la responsabilità civile dell’ex-partner per difetto di motivazione e rinviava la causa ai giudici civili.

Di fronte alla Corte d'appello civile la ricorrente chiedeva e otteneva il risarcimento del danno alla salute. In particolare, la Corte d’appello riteneva che la ricorrente fosse da tempo sofferente e indebolita dalle minacce, dagli insulti e dalle continue intrusioni dell’ex partner nella sua vita e che tali atti, colpendo una persona non più in grado di difendersi, avessero causato danni psicologici temporanei e poi permanenti.

Di fronte alla Corte di Strasburgo la ricorrente ha invocato la violazione degli articoli 3 e 8 della Convenzione lamentando l'inefficacia dell'indagine penale e l'inosservanza delle garanzie procedurali. La prescrizione dei reati che ha impedito una adeguata protezione della sua sfera personale attraverso lo strumento repressivo era stata causata dall’inerzia delle autorità che non hanno agito con la necessaria tempestività e diligenza. La ricorrente ha inoltre sostenuto che, nel condurre l'indagine penale, le autorità nazionali non hanno tenuto conto del contesto specifico della violenza domestica, dato che il reato di atti persecutori non esisteva al momento in cui le condotte aggressive si sono verificate. Secondo la ricorrente, le autorità non hanno fornito una risposta proporzionata alla gravità dei fatti contestati. Il risultato di questa mancanza è stato che il suo ex partner ha goduto di una totale impunità a causa della durata del procedimento.

Innanzitutto, la Corte ha escluso che la ricorrente avesse mancato di esaurire le vie di ricorso nazionali prima di invocare la tutela convenzionale, come richiesto dall’art. 35, § 1, della Convenzione. Il fatto che il giudizio civile per il risarcimento del danno subito fosse ancora pendente non è parso essere un argomento idoneo a ritenere ancora pendente in ambito nazionale un processo volto a riparare la violazione. Infatti, secondo la Corte, un'azione civile può portare al pagamento di un risarcimento ma non al perseguimento della persona responsabile di atti di violenza domestica. Di conseguenza, il rimedio risarcitorio non costituisce un rimedio in grado di consentire allo Stato di adempiere al suo obbligo procedurale ai sensi dell'articolo 3 di indagare su tali atti di violenza.

Nel merito la Corte ha ritenuto che l’articolo 3 della Convenzione fosse applicabile in base ai principi enunciati nel precedente De Giorgi c. Italia secondo cui per rientrare nel campo di applicazione della disposizione invocata, i maltrattamenti devono raggiungere un livello minimo di gravità. La valutazione di tale livello minimo dipende da tutte le circostanze del caso, in particolare dalla natura e dal contesto del trattamento, dalla sua durata, dai suoi effetti fisici e mentali, ma anche dal sesso della vittima e dal rapporto tra la vittima e l'autore del trattamento. I maltrattamenti che raggiungono questa soglia minima di gravità comportano generalmente lesioni fisiche o gravi sofferenze fisiche o mentali. Tuttavia, anche in assenza di abusi di questo tipo, se il trattamento umilia o degrada un individuo, mostrando una mancanza di rispetto o sminuendo la sua dignità umana, o suscita nella persona interessata sentimenti di paura, ansia o inferiorità tali da abbattere la sua resistenza morale e fisica, può essere classificato come degradante e quindi rientrare anche nel divieto di cui all'articolo 3. Oltre alla violenza fisica, vengono in considerazione anche tutte le conseguenze psicologiche della violenza domestica derivanti dalla violenza psicologica e dalle molestie nonché dalla paura di ulteriori aggressioni.

La Corte ha poi valutato se vi è stata una violazione dell’articolo 3 della Convenzione. In base ai suoi consolidati principi, l'obbligo dello Stato di condurre un'indagine efficace su tutti gli atti di violenza domestica è un elemento essenziale per il rispetto dell'articolo 3 della Convenzione. Per essere efficace, tale indagine deve essere tempestiva e approfondita per tutta la durata del procedimento, compresa la fase processuale. Inoltre, i procedimenti giudiziari non devono essere soggetti ad alcun termine di prescrizione (così come non è ammessa la concessione di un'amnistia o di un indulto). Di conseguenza, l’obbligo procedurale statale di condurre un’indagine efficace non può dirsi rispettato se il procedimento si interrompe a causa la prescrizione sul reato penale dovuta all'inattività delle autorità. Gli Stati hanno l'obbligo positivo di istituire e applicare efficacemente un sistema per punire tutte le forme di violenza domestica e di offrire adeguate garanzie procedurali alle vittime. 

Nel caso di specie, l’autorità giudiziaria ha fatto trascorrere tre mesi prima che la denuncia della ricorrente fosse registrata. L’ex partner è stato rinviato a giudizio circa quattro anni dopo la presentazione della denuncia e che la sentenza di primo grado è stata pronunciata più di sei anni dopo la presentazione della denuncia. La sentenza di assoluzione in Appello è stata pronunciata nei successivi sedici mesi. Date queste circostanze, le autorità non hanno dimostrato di avere una reale volontà di garantire che l’autore delle molestie fosse chiamato a rispondere del proprio operato. Al contrario, i tribunali nazionali hanno agito disattendendo l'obbligo di garantire che il soggetto accusato di minacce e molestie, fosse processato tempestivamente e non potesse quindi beneficiare della prescrizione. Di conseguenza, le autorità italiane non hanno agito con sufficiente tempestività e ragionevole diligenza. 

Questa inerzia risulta aggravata dal fatto che, nel condurre l'indagine penale, le autorità nazionali non hanno tenuto conto del problema specifico della violenza domestica, in tal modo, omettendo di fornire una risposta proporzionata alla gravità dei fatti denunciati dalla ricorrente. Il risultato di questa mancanza è stato che l’ex partner della ricorrente ha goduto di una totale impunità.

La Corte ha poi sollevato esplicite preoccupazioni sulle conseguenze combinate delle peculiarità del sistema italiano per quanto riguarda i termini di prescrizione e i ritardi nei procedimenti, richiamando le criticità già espresse dal GREVIO nei suoi recenti rapporti sull’Italia. Il modo in cui le autorità nazionali, da un lato, sulla base dei meccanismi di prescrizione propri del quadro nazionale, hanno mantenuto un sistema in cui il periodo di prescrizione è strettamente legato all'azione giudiziaria, anche dopo l'avvio del procedimento, e, dall'altro, hanno condotto il procedimento penale con una passività giudiziaria incompatibile con tale quadro giuridico, non può dirsi conforme ai requisiti dell'articolo 3 della Convenzione.

Di conseguenza, ha concluso che vi era stata una violazione dell'aspetto procedurale di tale disposizione.

 

Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 6 Febbraio 2025, ric. n. 40598/19, Miosotis Transport di Mauri Giuseppe & C. s.n.c. c. Italia

Oggetto: articolo 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione (ne bis in idem) – procedimento penale su violazioni connesse alla gestione di rifiuti, nei confronti di rappresentanti e azionisti della società Miosotis – ordinanze di ingiunzione a carico degli stessi soggetti e in relazione agli stessi fatti, con responsabilità solidale della società – presentazione di ricorso Cedu da parte della società – status di vittima e limiti di legittimazione della società in nome collettivo e dei soci.

I rappresentanti della Miosotis Transport di Mauri Giuseppe & C. s.n.c., società di trasporti, venivano indagati per violazioni connesse alla gestione di rifiuti.

In particolare, l’autorità inquirente ipotizzava gli illeciti di abbandono e deposito incontrollati di rifiuti speciali, nonché gestione senza le prescritte autorizzazioni/comunicazioni ai sensi dell’art. 256 § 1 d.lgs. n. 152/2006. Il procedimento penale si chiudeva col pagamento di oblazione.

In seguito, la Provincia di Pavia emetteva 17 ordinanze d’ingiunzione a carico dei medesimi per violazione dell’art. 193 § 1 d.lgs. n. 152/2006, nello specifico per il trasporto di rifiuti non pericolosi senza il prescritto formulario di identificazione, ritenendo la società responsabile in solido.

Nonostante l’opposizione, le ordinanze venivano confermate dall’autorità giudiziaria, anche in sede d’impugnazione.

Dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la Miosotis Transport di Mauri Giuseppe & C. s.n.c. lamentava, tra le altre cose, la violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 7, stante la soggezione dei soci e della società, in relazione allo stesso fatto, sia al procedimento penale che a ingiunzioni e procedimento civile.

Il caso viene affrontato solo sul versante dell’ammissibilità.

Benché i ricorrenti avessero subito il procedimento penale in forza del ruolo assunto nella società in nome collettivo e poi fossero stati destinatari di ingiunzioni per gli stessi fatti, la Corte accoglie l’eccezione relativa alla mancanza dello status di vittima della società ricorrente. 

Quest’ultima risulta destinataria solo dei procedimenti civili e, dinanzi alla Corte, non vanta legittimazione ad agire in merito all’asserita violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 7.  

L’argomento sollevato dalla ricorrente, secondo cui la Corte, in precedenza, ha ridimensionato la distinzione tra società con personalità giuridica e suoi azionisti, è irrilevante nel caso di specie, in quanto sviluppato esclusivamente al fine di consentire agli azionisti di presentare application in merito a procedimenti o eventi che riguardano le loro società (cf. Albert e altri c. Ungheria [GC], n. 5294/14, § 135-36, 7 luglio 2020).

Infine, il fatto che, in base al diritto nazionale, i soci di una società in nome collettivo siano responsabili in solido e illimitatamente per i debiti della stessa non consente di ritenere la società, neanche in via sostanziale, destinataria di un’accusa, tanto più considerato che il d.lgs. n. 231/2001 non contempla gli illeciti contestati come reati presupposto della responsabilità degli enti.

 

Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), Italgomme pneumatici s.r.l. e altri c. Italia, ric. nn. 36617/18 + 12, 6 febbraio 2025

Oggetto:  articolo 8 della Convenzione (tutela del domicilio e della corrispondenza)  – accertamento tributario – accessi, ispezioni  e verifiche presso locali commerciali, sedi legali o locali utilizzati per attività professionali da parte dell’Amministrazione finanziaria – «base giuridica» che non soddisfa il criterio della “qualità del diritto” – discrezionalità illimitata per quanto riguarda l’ambito e le condizioni delle attività contestate  – mancanza di sufficienti garanzie procedurali – mancanza di un effettivo controllo giudiziario – art. 46 (Misure generali) – problema sistemico 

I ricorsi riguardavano accessi, ispezioni e verifiche effettuati presso i locali commerciali, le sedi legali e i locali adibiti all’attività professionale dei ricorrenti (12 persone giuridiche e il titolare di una ditta individuale) da parte di ufficiali o agenti della Guardia di Finanza e dell’Agenzia delle Entrate  ai sensi degli artt. 51 e 52 del d.p.r. n. 633/1972 e degli artt. 32 e 33 d.p.r. 600/1973, al fine di accertare l’adempimento dei relativi obblighi fiscali.

In base alla disciplina vigente, tali attività venivano eseguite dietro autorizzazione del solo responsabile locale dell’Agenzia delle Entrate o della Guardia di Finanza e riguardavano la produzione di libri, registri, documenti e scritture, compresi quelli la cui tenuta e conservazione non sono obbligatorie, che si trovano nei locali in cui l’accesso viene eseguito, o che sono comunque accessibili tramite apparecchiature informatiche installate in detti locali.

I ricorrenti si rivolgevano quindi alla Corte di Strasburgo lamentando la violazione del diritto al rispetto del domicilio e della corrispondenza (art. 8), considerato singolarmente e congiuntamente all’articolo 13 e all’articolo 6 della Convenzione. I ricorrenti lamentavano, in particolare, l’eccessiva discrezionalità che la disciplina nazionale accorda ai verificatori e la mancanza di sufficienti garanzie procedurali che consentano al contribuente di reagire ad eventuali abusi. 

La Corte di Strasburgo respinge, in primo luogo, l’eccezione governativa relativa al mancato esperimento di rimedi interni, attesoché la disponibilità di un rimedio interno effettivo era, nel caso di specie, oggetto delle doglianze dei ricorrenti. 

La Corte chiarisce, poi, che le attività in esame, pur non equiparabili a un’attività ispettiva o a un sequestro di natura penale,  costituiscono comunque un’ingerenza nel “domicilio” e nella “corrispondenza” dei ricorrenti, in quanto questi ultimi sono tenuti a conformarsi alle richieste dell’organo accertatore, pena eventuali conseguenze sfavorevoli. Invero, sempre in base alla disciplina di riferimento, i ricorrenti erano stati informati che: in caso di rifiuto di esibire i documenti richiesti, gli stessi non avrebbero potuto essere presi in considerazione a loro favore ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa (art. 52, comma 5, d.p.r. n. 633/1972 e art. 32, comma 4, d.p.r. n. 600/1973); il rifiuto di esibire libri e documenti il ​​cui possesso era richiesto dalla legge o la cui esistenza era nota alle autorità avrebbe comportato l’irrogazione della sanzione prevista dall’art. 9, commi 1 e 2, d.lgs. n. 471/1997;  in caso di mancata conservazione o esibizione dei documenti sopra menzionati, l’Amministrazione finanziaria sarebbe stata autorizzata ad accertare quante operazioni erano state effettuate e quanto reddito era stato percepito ricorrendo a presunzioni semplici basate sui dati e sugli elementi altrimenti raccolti e disponibili alle autorità (art. 55, comma 2, del d.p.r. 633/1972 e art. 39, comma 2, d.p.r. n. 600/1973).

Richiamando la propria giurisprudenza (ad es. Bernh Larsen Holding AS e altri c. Norvegia), i giudici di Strasburgo precisano altresì che, sebbene gli Stati godano di un margine di discrezionalità più ampio nelle attività di controllo sulle persone giuridiche rispetto a quelle sulle persone fisiche, tale margine si restringe quando siffatto controllo implica la raccolta di un’ingente quantità di informazioni, richiedendo uno scrutinio rigoroso da parte della Corte. Nel caso in esame, le autorità nazionali avevano in effetti richiesto una quantità significativa di dati, eccedendo l’ambito dell’accesso originariamente previsto.

Tanto chiarito, quanto al requisito dell’esistenza di una appropriata «base giuridica», la Corte ribadisce anzitutto che, in ossequio ai principi dello Stato di diritto, il legislatore deve delimitare in modo chiaro l’ambito  e le modalità entro cui può esplicarsi la discrezionalità dell’Amministrazione, con un livello di precisione adeguato al contesto normativo e ai destinatari, in modo da offrire adeguate garanzie  contro interferenze arbitrarie nei diritti protetti dalla Convenzione.

In questa prospettiva, per quanto le garanzie normalmente richieste dalla Corte per le perquisizioni e ispezioni di persone giuridiche in ambito penale trovino applicazione in modo meno rigoroso nelle verifiche fiscali, stante la natura non coercitiva delle stesse ed essendo queste ultime correlate al dovere del contribuente di fornire informazioni accurate e all’interesse pubblico all’efficacia dell’accertamento tributario; nondimeno le autorità fiscali non possono godere di una discrezionalità illimitata, di talché occorre verificare se vi siano sufficienti garanzie procedurali in grado di proteggere i destinatari dei controlli da qualsiasi abuso o arbitrarietà. A questo riguardo, la Corte osserva che laddove la legge non richieda un’autorizzazione giudiziaria preventiva, occorre valutare se siano previste misure compensative adeguate.

La Corte ritiene, quindi, che, pur considerando il margine di apprezzamento più ampio riconosciuto agli Stati membri nei confronti delle persone giuridiche, la minore gravità dell’ingerenza in ragione dell’assenza di poteri coercitivi, nonché la rilevanza degli obiettivi perseguiti nel contesto delle verifiche fiscali, il quadro giuridico interno applicato nel caso di specie non risponde al requisito di “qualità del diritto” richiesto dalla Convenzione, in quanto ha conferito alle autorità nazionali una discrezionalità illimitata tanto con rifermento alle modalità di esecuzione delle attività contestate, quanto rispetto alla loro portata. In questo senso, la Corte rileva come la normativa vigente attribuisca ai verificatori (funzionari dell’Agenzia delle Entrate o ufficiali della Guardia di Finanza) ampi poteri di accesso ai locali commerciali e industriali per condurre verifiche e indagini fiscali, senza la necessità di un’autorizzazione motivata e, per quanto concerne la Guardia di Finanza, con la possibilità di effettuare l’accesso anche senza un’autorizzazione scritta, come peraltro chiarito dalla giurisprudenza di legittimità. Inoltre, il potere dell’Amministrazione tributaria e della Guardia di Finanza di decidere sulla necessità delle ispezioni, sul loro numero, sulla loro durata e portata, nonché sulle informazioni che venivano richieste, copiate o sequestrate, non è soggetta ad adeguata regolamentazione. 

La Corte aggiunge, inoltre, che ai fini della valutazione di conformità convenzionale del quadro normativo, è necessario considerare l’esistenza di criteri chiari e specifici stabiliti da norme di rango inferiore che integrino le disposizioni legislative. In questo contesto, le linee guida ministeriali e la circolare dell’Agenzia delle Entrate del 2021 individuano sì criteri oggettivi per la selezione dei soggetti da sottoporre a verifica, basati sulla natura dell’attività, il rischio di evasione e il comportamento pregresso del contribuente. Tuttavia, per quanto tali indicazioni possano contribuire a limitare la discrezionalità delle autorità e a prevenire abusi, esse devono avere carattere vincolante. Di talché, in assenza di un effettivo controllo sulle modalità di selezione dei contribuenti e di trasparenza nell’applicazione dei criteri nel tempo, il sistema non offre garanzie adeguate contro il rischio di arbitrarietà.

D’altronde, ad avviso della Corte i rimedi presentati dal Governo non possono essere considerati  efficaci e, dunque, il quadro normativo in esame non ha previsto garanzie procedurali sufficienti: sebbene le misure adottate fossero suscettibili di alcuni ricorsi giurisdizionali, non erano sottoposte a un controllo giudiziario adeguato.

Alla luce della natura sistemica della violazione riscontrata, la Corte ritiene fondamentale che l’Italia provveda ad adottare misure generali appropriate al fine di allineare la propria legislazione alle proprie conclusioni.

Occorre, anzitutto, che il quadro giuridico nazionale, se necessario mediante pertinenti direttive amministrative, indichi chiaramente le circostanze e le condizioni in cui alle autorità è consentito accedere ai locali e svolgere verifiche e controlli fiscali su locali commerciali o utilizzati per attività professionali. Inoltre, è necessario che siano stabilite garanzie per evitare l’accesso indiscriminato o almeno per impedire la conservazione e l’uso di documenti e elementi irrilevanti. Il contribuente deve avere il diritto di essere informato in anticipo sulla portata della verifica, o al più tardi all’inizio, sulle motivazioni della stessa, sul suo diritto di essere assistito da un professionista e sulle conseguenze del rifiuto di consentirne l’esecuzione. Inoltre, il quadro giuridico deve predisporre rimedi giurisdizionali effettivi, che consentano al contribuente, qualora ritenga che i funzionari che procedono alla verifica non agiscano in conformità alla legge, di esperire qualche forma di controllo provvisoria, semplificata e vincolante, prima che la verifica sia completata. 

[**]

Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
 
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
 
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa

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