Magistratura democratica

L’imparzialità dei magistrati e la loro partecipazione alla vita politico-sociale

di Mauro Volpi

Termine polisenso, l’imparzialità non va confusa con la neutralità, causa di un «lento esaurimento interno delle coscienze» che mina l’essenza della funzione giurisdizionale, bensì intesa come intima vocazione e sfida che il magistrato deve compiere anche con se stesso, coltivandola nel corso di tutta la sua vita professionale.
Contro lo spettro del “carrierismo” e i rischi di facili consensi, che tradiscono la fiducia dei cittadini, la risposta non sta in un formalismo esasperato o nella cancellazione del pluralismo – che contribuirebbe a favorire tentazioni regressive – ma deve essere un recupero, da parte delle associazioni, della funzione di politica della giustizia, nel segno dell’indipendenza (interna ed esterna) e dell’autonomia di ogni magistrato.

1. Imparzialità vs conformismo / 2. Imparzialità e indipendenza / 3. Imparzialità e impegno politico e sociale / 4. Imparzialità vs carrierismo

 

1. Imparzialità vs conformismo

Nei documenti internazionali e nei codici deontologici relativi alla magistratura il termine “imparzialità” è polisenso. Il suo significato prevalente è l’imparzialità nel processo, così come sancito nell’art. 11, comma 2 della Costituzione italiana, in base al quale il giudice (ma anche il pubblico ministero in quanto “parte imparziale”, che è tenuta a ricercare anche le prove a favore dell’indagato) non deve essere condizionato da alcuna opinione o pregiudizio né esterno né interno relativi alle parti, ma deve decidere secondo diritto alla luce dei fatti e delle prove dedotte in giudizio. Tuttavia, il concetto inevitabilmente si estende e viene riferito anche ad altri ambiti: i comportamenti esterni all’esercizio della funzione giurisdizionale (e, tra questi, la partecipazione alla politica), lo svolgimento di altre attività professionali (che possono dare vita a conflitti di interesse), il rapporto con i media (che comporta il rischio di esserne condizionati)[1].

Nel suo primo significato, l’imparzialità deve comunque essere distinta dalla “neutralità”, intesa non come doveroso distacco dalle parti, ma come tendenza a rifuggire dall’adozione di una decisione e, quindi, dall’essenza della funzione giurisdizionale, che obbliga il giudice a decidere anche quando la legge non è chiara o è incompleta e, quando vi è una lacuna, gli consente di fare applicazione diretta di una disposizione costituzionale. Ne deriva che il giudice non deve essere parziale, ma non può essere indifferente ed estraneo rispetto alla questione e, in quanto privato cittadino inserito «nei rapporti della vita associata regolati dal diritto oggettivo dello Stato»[2], può avere una partecipazione emotiva e psicologica, la quale non deve mai sfociare nel privilegiamento di un interesse personale, né trasparire nel corso del giudizio e incidere sulla decisione.

La neutralità, intesa come attitudine passiva, rischia di premiare il conformismo e di far preferire «alla soluzione giusta quella accomodante»; quindi il pericolo maggiore per l’indipendenza non proviene dall’esterno, ma da «un lento esaurimento interno delle coscienze, che le rende acquiescenti e rassegnate»[3].

 

2. Imparzialità e indipendenza

Tutti i documenti internazionali e deontologici collegano costantemente l’imparzialità ai principi di indipendenza e di autonomia. In effetti, l’imparzialità non può essere garantita senza indipendenza esterna della magistratura nei confronti dei poteri politici e senza indipendenza interna del singolo magistrato nello svolgimento quotidiano della funzione giurisdizionale. Quanto all’autonomia, l’imparzialità verrebbe compromessa qualora fosse pregiudicato il ruolo esercitato dal Consiglio superiore della magistratura, riducendolo a organo burocratico o di “alta amministrazione” tramite la soppressione delle competenze propositive, consultive e di tutela dell’indipendenza e del prestigio dei magistrati e l’aumento della componente laica di derivazione politico-parlamentare. Tuttavia, indipendenza e autonomia sono condizioni necessarie ma non sufficienti, in quanto possono garantire l’imparzialità in senso oggettivo o funzionale, consistente nel rispetto delle regole che presiedono all’esercizio della funzione giurisdizionale, ma non quella in senso soggettivo o comportamentale, che costituisce una qualità personale del magistrato, venendo a essere determinata dalla sua professionalità ma anche dal rispetto dei principi deontologici e da una vocazione di natura interna. In questo senso, l’imparzialità non è un risultato acquisito, ma è una sfida che il magistrato deve compiere anche con se stesso e coltivare nel corso di tutta la carriera.

A questo fine, egli non deve andare alla ricerca del consenso popolare, ma della fiducia dei cittadini. Come ha sottolineato di recente Luigi Ferrajoli, il primo implica l’adesione o la condivisione nel merito, mentre la seconda si manifesta «nella correttezza, nella soggezione alla legge, nel rispetto delle garanzie e nell’indipendenza dei magistrati»[4]. Non bisogna quindi cadere nella tentazione, proposta nella direttiva del Ministro Castelli sulla «dicitura da apporre nelle aule d’udienza», del 29 novembre 2002, e ripresa almeno in parte nell’intervento per l’inaugurazione dell’anno giudiziario (25 gennaio 2024) presso la Corte di cassazione dell’attuale Vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, di dare un’interpretazione dell’art. 101 Cost. volta a mettere in contraddizione il primo e il secondo comma e, quindi, a considerare la fiducia dei cittadini non come doveroso controllo dell’opinione pubblica, ma come fonte di legittimazione del potere giudiziario prevalente sulla soggezione alla legge. Vi è in queste prese di posizione il rischio che l’amministrazione della giustizia in nome del popolo venga intesa come conformità alla volontà popolare, quindi all’orientamento della maggioranza politica. Ora, il primo comma dell’art. 101 sancisce non la derivazione della magistratura dal popolo, ma la non subalternità dell’esercizio della funzione giurisdizionale a qualsiasi potere, neppure a quello esercitato da corpo elettorale, e la soggezione alla legge del secondo comma ne stabilisce l’indipendenza quale fondamentale strumento di tutela dei diritti dei cittadini.

 

3. Imparzialità e impegno politico e sociale

La partecipazione dei magistrati ad attività di tipo politico e sociale impone un bilanciamento tra l’imparzialità in senso soggettivo, che deve anche “apparire” tale, con la tutela dei diritti costituzionali che spettano ai magistrati in quanto cittadini ed elettori. Ciò impone il rigetto della concezione antistorica, dominante fino alla metà degli anni sessanta del secolo scorso, della magistratura come corpo burocratico asettico, che si isola completamente dal contesto sociale e politico. La riproposizione della concezione montesquiviana della magistratura come “bouche de la loi” è non solo superata nei fatti, ma si pone anche in contraddizione con la configurazione del potere giudiziario nelle democrazie costituzionali[5]. Ciò è particolarmente vero in Italia, dove alla magistratura è stato attribuito il ruolo di “portiere” della Corte costituzionale, che implica nella decisione di sollevare la questione di legittimità per non manifesta infondatezza il ricorso a un giudizio di valore, e si è affermato il ricorso da parte del giudice all’interpretazione conforme alla Costituzione. La concezione conservatrice è pericolosa in quanto, nell’esercizio della funzione giurisdizionale, può condurre a un formalismo esasperato, non in grado di considerare adeguatamente e con spirito equitativo le circostanze concrete e la personalità di chi è parte nel giudizio, dando vita a decisioni formalmente corrette, ma sostanzialmente abnormi. Inoltre, in Italia ha mascherato per almeno vent’anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione la soggezione spontanea di gran parte della magistratura al potere politico e agli uomini più ricchi e potenti. Quindi non solo i magistrati possono partecipare alla vita politica e sociale, ma è un bene che abbiano la consapevolezza del contesto reale e dell’influenza che questo esercita sui comportamenti giuridicamente rilevanti.

Lo svolgimento di attività esterne all’esercizio della funzione giurisdizionale può assumere diverse forme che pongono la questione della tutela dell’imparzialità.

La modalità che pone meno problemi è l’espressione pubblica di opinioni politico-culturali. Essa ha un fondamento costituzionale nel diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero sancito dall’art. 21 Cost. In materia vi è un orientamento giurisprudenziale consolidato, seguito anche dalla sezione disciplinare del Csm, secondo il quale l’imparzialità non viene pregiudicata da una mera opinione politico-ideologica, ma solo dall’esistenza di un interesse personale, diretto e concreto, anche di tipo non patrimoniale, del magistrato nel procedimento. La stessa avversione politica verso l’indagato o l’imputato può rilevare ed essere causa legittimante della ricusazione solo se diventa personale e risulta incompatibile con la logica che è posta a presidio del comportamento imparziale del magistrato. Quindi, l’ostilità politica o culturale mette in causa l’imparzialità quando si manifesta all’interno delle modalità di esercizio della funzione giurisdizionale, come si verifica quando il magistrato faccia dichiarazioni critiche nei confronti di una parte nel corso di un giudizio di sua competenza. Cosa diversa è l’esistenza di limiti alla libertà di manifestazione del pensiero esterna alla funzione che il magistrato deve esercitare con modalità e con un linguaggio consoni al suo ruolo, evitando espressioni ingiuriose o che possano pregiudicarne il prestigio.

Altra modalità di partecipazione alla politica è rappresentata dall’appartenenza del magistrato a un’associazione interna alla magistratura. Anche qui vi è una copertura costituzionale: la libertà di associazione è sancita dall’art. 18 Cost., che la esclude solo per le associazioni che commettono reati e proibisce quelle segrete e quelle che perseguono scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare. L’associazionismo dei magistrati esiste in vari ordinamenti democratici, come in Francia e in Spagna, e anche a livello sovranazionale. In Italia si afferma fin dall’inizio del Novecento con la costituzione, nel 1909, della Associazione generale tra i magistrati d’Italia, poi autoscioltasi nel 1925 per non essere trasformata in sindacato fascista prima che la legge n. 563 del 1926 stabilisse il divieto di associazione tra i magistrati. Non vi è dubbio che l’associazionismo svolga una funzione politica, anche se incentrata sull’organizzazione e sul funzionamento della giustizia, sui rapporti tra giustizia e società e sul ruolo della magistratura[6]. Recentemente il Ministro Crosetto ha evocato una segnalazione anonima che faceva riferimento a riunioni tra magistrati, i quali si sarebbero proposti di operare per la caduta del Governo. Non è una novità: nel 2003 un uomo politico richiese la ricusazione di un giudice ritenuto membro di una associazione politicamente “ostile” alla sua parte politica. La questione era di particolare gravità, in quanto avrebbe potuto coinvolgere qualsiasi magistrato appartenente alla medesima associazione e quindi inaugurare una deriva verso la possibilità dell’imputato di scegliere magistrati politicamente “amici” o che non avessero mai aderito a un’associazione o ad orientamenti politico-ideali diversi dai suoi. La Corte di cassazione bocciò la richiesta, in quanto il motivo di ricusazione era qualificato come di natura ideologica e affermò che «la condotta processuale del giudice può venire eventualmente in considerazione, ove si concretizzi in comportamenti ispirati a comprovata malafede e dolosa scorrettezza, solo in quanto possa costituire dimostrazione di un’inimicizia estranea e anteriore al processo»[7].

Questione più complessa e delicata è l’esercizio, da parte del magistrato, dei diritti fondamentali di natura politica ex artt. 2, 18 e 49 Cost. Com’è noto, l’art. 3, comma 1, lett. h del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 ha dato attuazione alla facoltà riconosciuta al legislatore dall’art. 98, comma 3, Cost. di «stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici» anche per i magistrati. Lo ha fatto ampliando l’ambito del divieto che riguarda non solo l’iscrizione, ma anche «la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici», estensione che è stata giustificata dalla Corte costituzionale al fine di evitare che sia condizionata l’indipendenza e l’imparzialità e compromessa l’immagine del magistrato legato «ad una struttura partitica che importa anche vincoli gerarchici interni»[8]. La stessa Corte ha precisato che l’illecito disciplinare si configura solo se si tratti «di un coinvolgimento non già occasionale, bensì rivelatore di uno schieramento stabile ed organico del magistrato con una delle parti politiche in gioco»[9]. Ne deriva che non è affatto vietata la partecipazione a iniziative di un partito che abbia carattere di occasionalità e sporadicità. Ancora meno è vietata la presenza a riunioni o a pubbliche manifestazioni di associazioni politico-culturali e svolgenti attività sociale, come ha fatto nel 2018 la giudice Iolanda Apostolico.

Vi è, poi, la questione dell’accesso dei magistrati a cariche politiche, elettive o meno, che è garantito dall’art. 51, comma 1, Cost. «secondo i requisiti stabiliti dalla legge». Per un lungo periodo di tempo, i limiti territoriali e temporali previsti hanno riguardato l’eleggibilità in Parlamento, mentre la limitazione dell’accesso alle cariche regionali e locali era subordinata al collocamento in aspettativa non retribuita per cariche relative al territorio in cui il magistrato esercitava la funzione giurisdizionale, che però non costituiva un obbligo al di fuori di esso, con la conseguenza che un magistrato poteva svolgere contemporaneamente funzioni politico-amministrative e giudiziarie, purché in territori diversi. Dal 2010, in successive delibere, il Csm ha messo l’accento sulla necessità di un intervento del legislatore statale più rigoroso e volto ad evitare situazioni che potevano suscitare dubbi sulla imparzialità dei magistrati coinvolti. Alla fine è intervenuta la legge 17 giugno 2022, n. 71, che ha previsto una regolamentazione uniforme per l’accesso a tutte le cariche elettive nazionali, regionali e locali, e ha stabilito il collocamento in aspettativa obbligatoria per l’accesso agli incarichi di governo a tutti i livelli, condizione nella quale il magistrato deve trovarsi nei tre anni precedenti all’assunzione dell’incarico che riguardi un territorio rientrante nella competenza dell’ufficio giudiziario nel quale prestava servizio. Inoltre, la legge contiene disposizioni che limitano il ricollocamento in ruolo dei magistrati non eletti, che non possono esercitare le funzioni di gip, gup, pm e assumere incarichi direttivi e semidirettivi, e soprattutto quello dei magistrati eletti che sono ricollocati fuori ruolo presso il Ministero della giustizia, la Presidenza del Consiglio o altri ministeri, oppure in alternativa sono assegnati a funzioni non giurisdizionali, né giudicanti né requirenti. La disciplina è quindi divenuta per vari aspetti piuttosto rigida, prestandosi, per quanto concerne il ricollocamento in ruolo, a possibili rilievi di legittimità costituzionale in riferimento al diritto alla conservazione del posto di lavoro previsto dall’art. 51, comma 3, Cost., anche se si potrebbe sostenere che, nell’ipotesi di incarichi politici duraturi e continuativi, il diritto in questione sarebbe soddisfatto dalla equivalenza della diversa funzione pubblica attribuita sotto i profili della retribuzione e del prestigio professionale. In ogni caso, l’accesso dei magistrati a incarichi politici non è stato tale da ingenerare dubbi sull’imparzialità della magistratura, anche perché è stato decrescente nel corso del tempo fino alla situazione attuale che vede tra i magistrati solo due eletti in Parlamento, uno parlamentare europeo e uno presidente di regione.

Molto più significativo è stato il collocamento fuori ruolo che ha riguardato un numero elevato di magistrati, dando vita al fenomeno delle “carriere parallele”. L’imparzialità viene in gioco per gli incarichi che implicano lo svolgimento di funzioni non attinenti alla giurisdizione e, in particolare, per quelli di diretta collaborazione con i ministri o altri titolari di cariche politiche. Il Csm ha approvato varie circolari tendenti a limitare il collocamento fuori ruolo e a stabilire parametri di valutazione più rigorosi. La legge n. 71 del 2022 ha stabilito varie restrizioni, come la riduzione a sette anni della durata massima del collocamento fuori ruolo, il requisito dell’esercizio delle funzioni giudicanti da almeno dieci anni, la riduzione in sede di attuazione della delega legislativa del numero massimo dei magistrati collocabili fuori ruolo rispetto ai duecento previsti dalla normativa vigente. Secondo la mia opinione, maturata nel corso dell’esperienza compiuta quale membro laico del Csm, sarebbe opportuno rafforzare la facoltà del Consiglio di negare il collocamento fuori ruolo quando non corrisponda agli interessi dell’amministrazione della giustizia e possa rappresentare un rischio per l’immagine di imparzialità del magistrato.

 

4. Imparzialità vs carrierismo

Il problema di fondo della magistratura italiana, che ha avuto conseguenze negative sul funzionamento del Csm, è quello della tendenza a un ripiegamento burocratico e corporativo che mette a rischio l’indipendenza e l’imparzialità. In particolare, in tale contesto si è sviluppato il fenomeno del carrierismo, che, com’è stato recentemente sottolineato, è «incompatibile con l’indipendenza interna dei magistrati e con la logica della giurisdizione»[10]. La manifestazione più eclatante del carrierismo è stata la formazione di cordate in rapporto diretto, più che con la politica, con singoli uomini di potere e interessi politici e affaristici, le quali hanno assunto carattere trasversale rispetto alle associazioni della magistratura. Il “correntismo” di cui molto si è parlato non è la causa, ma piuttosto l’effetto del corporativismo carrieristico, il quale ha determinato l’offuscamento delle originarie ragioni politico-ideali delle associazioni tendendo a trasformarle in soggetti sindacali. La risposta non può essere certo la cancellazione del pluralismo, che contribuirebbe a favorire le tentazioni regressive, ma deve essere il recupero da parte delle associazioni della funzione di politica della giustizia, e su questo terreno devono misurarsi i gruppi consiliari senza avere la pretesa di imporre un voto di componente sulle delibere del Csm attinenti alle persone e, quindi, tutelando l’imparzialità nell’esercizio del mandato.

Più in generale, l’imparzialità assume un ruolo centrale in una fase critica della storia della magistratura italiana. Le negatività interne la rendono più esposta e vulnerabile alla ricorrente campagna che le rivolge l’accusa di operare come un potere politico che ha invaso il campo spettante ai partiti e agli organi costituzionali di indirizzo politico. Inutile dire che questa gravissima accusa è priva di un riscontro obiettivo, perché tale non può essere considerato l’esercizio doveroso dell’azione penale nei confronti di uomini politici per reati di corruzione, concussione e contro la pubblica amministrazione. Ovviamente, ciò non significa che non vi siano stati singoli casi di debordamento, specie nell’esercizio della funzione requirente, che vanno specificamente sottoposti a critica. Sicuramente vi è stata una sovraesposizione della magistratura dovuta alla debolezza e, talvolta, anche alla richiesta di supplenza della politica. La risposta deve venire dal corpo sano della magistratura e dalla eliminazione delle zone d’ombra. Per fare ciò, è necessario porre al centro dell’esercizio della funzione giurisdizionale la professionalità e l’etica che costituiscono l’essenza del principio di imparzialità.

 

 

1. Vds. CCJE (Conseil Consultatif des Juges Européens), parere n. 3, 2002: «(…) sur les principes et règles régissant les impératifs professionnels applicables aux juges et en particulier la déontologie, les comportements incompatibles et l’impartialité», punti da 27 a 40 (https://rm.coe.int/168074772b).

2. Cfr. Corte cost., n. 135/1975, p. 6 del considerato in diritto.

3. Queste le parole di saggezza di un magistrato a riposo riportate da P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Salani, Milano, 2008, p. 269.

4. Cfr. L. Ferrajoli, Giustizia e politica. Crisi e rifondazione del garantismo penale, Laterza, Bari, 2024, p. 246.

5. Vds. gli importanti contributi in C.N. Tate e T. Vallinder (a cura di), The Global Expansion of Judicial Power, New York University Press, New York, 1995.

6. Sull’associazionismo nella magistratura italiana rinvio a M. Volpi, Le correnti della magistratura: origini, ragioni ideali, degenerazioni, in Rivista AIC, n. 2/2020 (www.rivistaaic.it/images/rivista/pdf/2_2020_Volpi_2.pdf). 

7. Cass., sez. VI, 3 aprile 2003, n. 37315.

8. Cfr. Corte cost., n. 224/2009, punto 2 del considerato in diritto.

9. Cfr. Corte cost., n. 170/2018, punto 5 del considerato in diritto.

10. Cfr. L. Ferrajoli, Giustizia e politica, op. cit., p. 253.