Magistratura democratica

Autonomia vuol dire (anche) farsi comprendere

di Conversazione fra Enrico Scoditti e Gianrico Carofiglio

E.S. Partiamo da un dato incontroverso: come prevede l’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, possono essere fissate per legge condizioni e restrizioni alla libertà di espressione a garanzia dell’imparzialità del potere giudiziario. Gli interrogativi e i dilemmi intervengono quando iniziamo a chiederci: “entro quali limiti?” e “in quali situazioni?”.

Ti pongo un primo quesito: non pensi che vi sia una relazione inversa fra la restrizione alla libertà di espressione e il grado di concretezza dell’idea comunicata, per cui tanto più astratta e generale è l’idea, tanto minore è il vincolo da porre alla libertà, mentre quanto più l’opinione espressa si approssima al caso concreto, tanto più il self-restraint deve essere avvertito dal magistrato, perché questo potrebbe significare l’anticipazione del giudizio rispetto a un caso che ha o potrebbe avere in trattazione? 

G.C. Non avrei dubbi sul punto. Su temi generali e astratti, relativi per esempio all’etica pubblica, su questioni che hanno a che fare con la natura della democrazia, sugli assetti istituzionali, sui progetti di riforma della giustizia o addirittura della Costituzione, qualsiasi cittadino, e dunque qualsiasi magistrato, deve poter esprimere senza restrizioni la sua opinione. Se ne ha una. 

Più aumenta il tasso di specificità della questione, più aumenta il rischio che il magistrato che interviene sia percepito come parte o, addirittura, avversario politico. O che le dichiarazioni vengano strumentalizzate in mala fede, ipotesi di cui ci si deve sempre fare carico. Dunque, aumenta la necessità di cautela, nei contenuti e nei modi. I secondi sono importanti almeno quanto i primi. Si parla poco della necessità di un galateo della manifestazione pubblica del pensiero da parte del magistrato. Proprio come nel galateo, le formule servono a facilitare le interazioni sociali, a promuovere e garantire la convivenza civile a evitare gli equivoci. In concreto: il modo corretto di entrare nel dibattito pubblico da parte di un magistrato mi è sempre sembrato quello che chiarisce esplicitamente gli ambiti, che sottolinea ciò che per molti è ovvio, ma per molti altri non lo è: intervengo su un tema generale ribadendo che il contenuto di questo intervento si colloca in un ambito diverso e separato dall’esercizio delle funzioni, con il quale non interferirà.

 

E.S. A monte dell’imparzialità c’è l’indipendenza: la prima è una conseguenza della seconda, e non viceversa. Se questo è il criterio, in quale misura il parametro dell’indipendenza consente di fissare i limiti dell’ostensione pubblica della scelta politica da parte del magistrato?

G.C. In generale direi che dichiarare una scelta politica, nel senso di indicare il proprio voto, la propria preferenza per uno specifico partito politico, è sconsigliabile. Non per una questione di ipocrisia, ma perché una simile dichiarazione pubblica si presta a strumentalizzazioni da una parte e dall’altra ed è lesiva dell’immagine di indipendenza del magistrato; immagine che è importante quanto l’indipendenza stessa nella sua sostanza. A pensarci bene: le due cose si identificano. Io credo che i limiti siano quelli, fluidi, cui abbiamo già fatto cenno: intervenire liberamente sulle questioni fondamentali della vita democratica; con maggiore cautela e discernimento rispetto a specifiche vicende, specifici contenuti politici; prestare sempre estrema attenzione al modo, al linguaggio, ai tempi, anche al contesto dell’intervento. Tenere sempre presente che ci saranno interlocutori in mala fede pronti alla manipolazione e interlocutori in buona fede cui occorre, però, spiegare con chiarezza le proprie posizioni.

 

E.S. Afferma la Corte costituzionale che il magistrato può manifestare legittimamente le proprie idee politiche, «a condizione che ciò avvenga con l’equilibrio e la misura che non possono non caratterizzare ogni suo comportamento di rilevanza pubblica». Prima questione: c’è un’esigenza di terapia linguistica a garanzia dell’immagine di imparzialità del magistrato? Quanto il linguaggio può condizionare questa immagine? 

G.C. È quello che dicevamo prima. I modi sono fondamentali, l’igiene linguistica è indispensabile. Questo significa che bisogna farsi capire e, per farsi capire, bisogna mettersi dal punto di vista del destinatario del messaggio. Molti dei magistrati che intervengono nel dibattito pubblico con posizioni e riflessioni ampiamente condivisibili (spesso ovvie, a fronte di certe manipolazioni della politica politicante) lo fanno senza controllare i codici linguistici, a volte usando un gergo improponibile, a volte dando per scontati concetti e categorie che per il comune cittadino, anche se politicamente sensibile e attivo, non lo sono affatto. Questo condanna, nel migliore dei casi, all’irrilevanza. Per il filosofo John Searle, il primario contratto sociale di una comunità è la fiducia in un linguaggio condiviso. Io sono del tutto d’accordo. Le società in cui prevalgono le asserzioni oscure o, peggio, vuote di significato sono in cattiva salute. Alla perdita di senso o anche solo di comprensibilità del discorso pubblico consegue una pericolosa caduta di legittimazione delle istituzioni.

 

E.S. Seconda questione, muovendo sempre da quel passaggio della Corte costituzionale: quanto una posizione politica che miri a bilanciare le diverse ragioni in campo è preferibile a opzioni radicali al fine di salvaguardare questa immagine di imparzialità? Il giudice che difenda in pubblico le proprie scelte politiche deve farsi carico delle ragioni dell’altro, nella definizione di ciò che è bene per la comunità, più di quanto possa farlo un comune cittadino? Oppure la costitutiva parzialità del punto di vista politico comporta che «l’equilibrio e la misura» attingano solo la forma del dialogo democratico?

G.C. La mia personale regola sull’agire politico, sull’intervenire nella politica è la seguente: radicalità nei valori, moderazione nei modi. Laddove la moderazione nei modi include la capacità di ascolto delle opinioni altrui e la pratica della cd. “carità interpretativa”. Una categoria elaborata dai filosofi analitici e imperniata sull’idea che, quando ci scontriamo con la posizione di un interlocutore, dobbiamo farlo prendendo in considerazione la versione migliore della sua tesi. Dobbiamo partire dal presupposto che la prospettiva della nostra controparte abbia una coerenza interna, invece di liquidarla come irragionevole. E dobbiamo dare per scontato – salva, naturalmente, la prova del contrario – che tale prospettiva sia concepita in buona fede. Questo non vuol dire arrendevolezza rispetto a tesi che consideriamo sbagliate. Tutt’altro. Si tratta di un principio epistemologico e di un metodo per praticare con civiltà, ma anche con estrema efficacia, il discorso pubblico.

 

E.S. Ho sostenuto in alcuni scritti che il giudice, in sede di interpretazione del diritto, debba assumere un dovere di indipendenza da se stesso. Si tratta, ovviamente, di un dover essere, e non di uno stato di fatto. Se convieni sull’esistenza di un simile dovere, ritieni che sia sufficiente garanzia di imparzialità, per un magistrato che renda pubbliche le sue scelte politiche, la circostanza che poi assuma un dovere di indipendenza da se stesso e renda conto mediante la motivazione del provvedimento giurisdizionale dell’effettiva assunzione di quel dovere? Oppure pensi che qualcosa di più debba esservi nei modi del suo rendere pubbliche le proprie scelte di valore?

G.C. Sono d’accordo sulla necessità di praticare quella che tu chiami “indipendenza da se stessi”. Come ci insegnano molti sistemi di pensiero, primo fra tutti quello psicanalitico (uso l’espressione in senso ampio e, dunque, inevitabilmente impreciso), il solo modo per non farci condizionare o addirittura governare dai nostri pre-giudizi è di esserne consapevoli, portarli alla superficie e osservarli criticamente, anche solo nel monologo interiore. Detto questo: le decisioni del magistrato si valutano (ed eventualmente si criticano) esaminando le motivazioni dei suoi provvedimenti. Ragioni di opportunità – forse anche di etica civile – suggeriscono però che il magistrato attivo nel dibattito pubblico renda esplicita, nei suoi interventi, la differenza dei piani e come, nella decisione dei casi sottoposti alla sua attenzione, egli o ella si sforzi di tenere distinte le proprie personali convinzioni dalle ragioni interpretative.

 

E.S. C’è una fenomenologia di ipotesi di presenza pubblica del magistrato, che possiamo immaginare, collegata a vicende processuali che egli ha in trattazione: nel corso del processo il giudice può, in relazione alla materia oggetto del suo caso, partecipare a un convegno scientifico, esponendo tesi minoritarie che potrebbero peraltro non tornare nella sua decisione, basata invece sulla giurisprudenza dominante, o può prendere parte attivamente a una manifestazione di critica politica, sia pure non caratterizzata dal punto di vista partitico, della legge di cui a breve dovrà fare applicazione. A quale complesso di conseguenze, giuridiche e non, ti fanno pensare questi due casi, sempre che delle conseguenze debbano esserci?

G.C. Non vedo conseguenze giuridiche. Per entrambe le ipotesi il tema, ancora una volta, è quello del senso di opportunità, che ha una ineliminabile dimensione soggettiva. Quando facevo il magistrato partecipavo a convegni scientifici esprimendo le mie posizioni su questioni interpretative e di politica del diritto; evitavo di prendere parte attiva a manifestazioni politiche, soprattutto per evitare il rischio delle polemiche strumentali. 

 

E.S. Avviamoci alla conclusione. Vengo da una scuola di pensiero in cui le ambivalenze e i cerchi che non è possibile quadrare residuano sempre alle nostre ambizioni di trovare formule nelle quali tutti i conti tornino e possano fare, per così dire, sistema. Cosa pensi che nel tema “magistrati: essere ed apparire imparziali” resti irrisolto? Quali possono essere i nodi non sciolti con i quali dobbiamo accettare di convivere, come quotidianamente facciamo per quella buona dose di imperfezione che troviamo in noi stessi e nel mondo che ci circonda?

G.C. Possiamo e dobbiamo elaborare categorie generali, ma nella consapevolezza – parlando di regole di condotta non tipizzate, siano esse di natura etica, deontologica o di altro genere – che abbiamo a che fare con un sapere casistico. Dunque, dobbiamo accettare l’idea che qualche specifica circostanza di fatto sfugga alla nostra capacità di prevederla, di classificarla a priori. Questo dipende da molti fattori, primo fra tutti, oggi, lo sviluppo delle nuove tecnologie. Le regole di comportamento dei magistrati praticate anche solo vent’anni fa sembrano in buona parte reperti archeologici nell’era dei social. E non abbiamo idea di come e quanto l’intelligenza artificiale influirà anche su questi temi. Non so quali siano i nodi non sciolti (lo scopriremo quando verranno al pettine, mi verrebbe da dire, rimanendo nella metafora), ma so che esiste, in questo come in ogni altro ambito del pensare e dell’agire politico, una questione cruciale di metodo. E su questo punto mi piace concludere allargando l’orizzonte con un riferimento che potrebbe sembrare lontano dalle cose di cui abbiamo parlato. Ma forse no, se guardiamo con attenzione. Penso a un concetto elaborato dal poeta inglese John Keats: quello di “capacità negativa”. Per Keats essa è la dote fondamentale dell’uomo in grado di conseguire risultati autentici, di risolvere davvero i problemi. Keats chiamò “negativa” questa capacità per contrapporla all’atteggiamento positivo di chi affronta i problemi alla ricerca di soluzioni immediate, nel tentativo di piegare la realtà al proprio bisogno di certezze.

Per Keats, accettando l’incertezza, il caso, il disordine, l’errore, il dubbio è possibile osservare più in profondità, cogliere le sfumature e i dettagli, porre nuove domande, anche paradossali, e allargare i confini della conoscenza e della consapevolezza.

La capacità negativa implica accettare l’idea che si possano conoscere elementi singoli della realtà o anche, in qualche misura, blocchi complessi, ma che le teorie onnicomprensive e assolute (le verità assolute, che discendono dall’incapacità di vivere l’ansia della complessità) siano destinate a crollare dinanzi ai fatti. In estrema sintesi: la complessità del mondo in cui viviamo supera la nostra capacità di comprenderlo in toto. Accettare coraggiosamente questa verità è una delle premesse per un agire (e un pensare) politico laico, tollerante ed efficace.